Marco Bellucci | Fano – Passaggi Festival https://2021.passaggifestival.it/ Passaggi Festival. Libri vista mare Thu, 10 Sep 2020 10:01:47 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=5.8 https://2021.passaggifestival.it/wp-content/uploads/2020/03/cropped-nuovo-logo-passaggi-festival_rosso-300x300-1-32x32.jpg Marco Bellucci | Fano – Passaggi Festival https://2021.passaggifestival.it/ 32 32 Ritanna Armeni: Mara, il simbolo delle donne nell’Italia fascista https://2021.passaggifestival.it/ritanna-armeni-rivoluzione-silenziosa-donne-durante-fascismo/ Thu, 10 Sep 2020 10:01:47 +0000 https://2021.passaggifestival.it/?p=75458 Venerdì 28 Agosto, all’interno della Chiesa di San Francesco, la giornalista e scrittrice Ritanna Armeni ha presentato il suo ultimo romanzo: Mara. Una donna del Novecento, edito da Ponte alle Grazie. L’autrice ha conversato con Flavia Fratello (La7) e Tiziana Ragni (Repubblica Live). Una narrazione diversa La genesi di questo libro per tanti aspetti geniale, […]

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Venerdì 28 Agosto, all’interno della Chiesa di San Francesco, la giornalista e scrittrice Ritanna Armeni ha presentato il suo ultimo romanzo: Mara. Una donna del Novecento, edito da Ponte alle Grazie. L’autrice ha conversato con Flavia Fratello (La7) e Tiziana Ragni (Repubblica Live).

Una narrazione diversa

La genesi di questo libro per tanti aspetti geniale, un romanzo di formazione alternato a pagine di puro saggio storico, deriva da una riflessione della stessa autrice: “la storia delle donne spesso si incrocia ma non coincide mai con quella degli uomini, degli stati e dei popoli”. Questa idea nasce dall’esperienza di Ritanna Armeni in tanti anni passati a lottare per le pari opportunità, varie letture, e soprattutto, dall’ascolto dei racconti di donne anziane che hanno vissuto, spesso anche da protagoniste, l’esperienza fascista. La storiografia ci ha spesso mostrato lo stereotipo della donna in epoca fascista: donne sottomesse, “madri fattrici” che dovevano stare in casa a prendersi cura della casa e dei tantissimi figli. Le storie raccontate in prima persona da queste donne, invece, nascondevano una certa nostalgia, l’idea di aver vissuto un momento particolare.

Il sogno di Mara

La protagonista di questa storia è, come suggerisce il titolo, Mara, una ragazzina che nel 1933, all’apice del periodo fascista, ha tredici anni e che seguiamo crescere fino all’età di venticinque anni. Come tante donne e ragazzine del tempo, Mara è innamorata della figura del Duce e come la sua migliore amica, Nadia, è una fascista convinta. Nonostante questo, però, Mara ha dei sogni, coltiva delle ambizioni, vuole studiare e fare l’università, desideri che non si addicono all’immagine della donna fascista. Questa però, non è una storia di ribellione ma è una storia comune a quella di molte donne dell’epoca, che non solo subiscono la fascinazione del fascismo, ma nel fascismo, in parte, trovano una possibilità di crescita ed emancipazione.

La contraddizione del fascismo

Il regime fascista punisce le donne, le umilia. Le donne venivano viste come cittadine di serie B, dotate di poca intelligenza e quindi non dovevano studiare, insegnare e nemmeno fare sport poiché dovevano preservare il proprio corpo per non compromettere la fertilità. Mussolini avvia un programma di crescita demografica spingendo le donne a fare sempre più figli. Il regime definisce addirittura le misure delle donne per questo scopo. La donna ideale fascista era la madre, la donna fedele, la vedova inconsolabile, la vestale del fascio ecc.. Da un’altra parte però, il fascismo esaltava la figura della donna indipendente, che aveva il controllo del proprio corpo e del proprio fisico. Le donne venivano addirittura sollecitate a fare ginnastica, indossando calzoncini e maglie aderenti, e a partecipare alle manifestazioni. Il regime, inoltre, si preoccupava del consenso delle donne, a differenza dei padri del rinascimento, per cui la donna non esisteva affatto.

La rivoluzione silenziosa

Mara e tutte queste donne ricevono, perciò, tanti messaggi contraddittori e la loro risposta a queste sollecitazioni è quella di avviare una rivoluzione silenziosa, che non nasce dalla voglia di disobbedire e di ribellarsi al regime, ma proprio da queste due immagini contraddittorie di donna che il fascismo propugnava. Mara non si sente una ribelle, si sente soltanto parte di un flusso. Le donne non potevano fare sport, eppure proprio durante il fascismo, Trebisonda Valli (detta Ondina) è la prima donna a vincere una medaglia d’oro alle Olimpiadi. Mussolini è costretto a riceverla, poiché per le donne, Ondina era il simbolo, l’incarnazione della donna fascista. La donna non era adatta a studiare, eppure le iscritte alle università di tutta Italia triplicarono. Tutti gli sforzi di Mussolini per la crescita demografica del popolo italiano fallirono in modo clamoroso. Il Duce addirittura sarà costretto ad ammettere questo fallimento dovuto a «problemi morali», le donne indipendenti avevano scelto di fare meno figli.

La guerra e la fine del regime

L’esperienza disastrosa della guerra e la fine del regime vengono vissute in maniera molto attiva ed intensa dalle donne. Queste vedono prima di altri il fallimento del regime, anzi, secondo Ritanna Armeni il fascismo finisce proprio quando le donne capiscono che è finita. Si rompe il sentimento di fiducia e di amore che le donne provavano per il Duce. Quest’ultimo non voleva che le donne lavorassero, eppure ora le donne erano costrette sia a lavorare che a badare alla casa. Le donne sono quelle che hanno retto l’Italia in quegli anni, lavorando e badando ai figli, combattendo la fame e la miseria. Esse attendono invano il ritorno dei propri figli, li vedono perseguitati dai propri compatrioti e dai tedeschi, vivono in prima persona la crisi dell’economia domestica e la delusione della speranza che il fascismo avrebbe portato un futuro straordinario.

“ Il racconto di Mara è il racconto di una ragazza normale, non un’eroina, è quello del novantacinque per cento delle donne italiane: tutte abbiamo avuto una mamma, una nonna che era contenta di uscire il sabato e sfuggire dal controllo del nonno. Mara rappresenta tutte.”

Riflettere sul presente

Lo scopo di Ritanna Armeni nello scrivere il libro non è stato quello di una rivalutazione storica o di una conversione ideologica di una donna di sinistra. La chiave di lettura del romanzo sta proprio nella particolarità della storia delle donne, che in questo caso si intreccia con quella del fascismo in Italia ma non coincide con essa. Il 25 Aprile le donne, fino ad allora oppresse, sono diventate il simbolo dell’Italia che nasceva. Tesi poco credibile secondo Ritanna Armeni. La democrazia ha dato spazio al chiasso delle donne ma non è stato un cammino così fulgido come spesso la storiografia lo descrive. Tante leggi ineguali e spesso disumane sono rimaste in vita ben oltre la date della liberazione d’Italia, penalizzando e spesso umiliando le donne. Questo romanzo perciò, mira anche a far riflettere riguardo il presente e il ruolo della donna nella società odierna, soprattutto in questo momento particolare di pandemia, dove chi si è dovuto maggiormente sacrificare e restare in casa sono state proprio le donne.

 

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Pippo Ciorra e la crisi dell’architettura italiana https://2021.passaggifestival.it/pippo-ciorra-crisi-architettura-italiana/ Fri, 04 Sep 2020 08:52:39 +0000 https://2021.passaggifestival.it/?p=75282 Giovedì 27 Agosto, presso la Sala da tè L’Uccellin bel verde, si è tenuto il primo incontro della rassegna Calici di scienza con l’Università di Camerino, dal titolo: Istruzioni per non restare senza architettura, tenuto da Pippo Ciorra. Il pubblico ha potuto così seguire l’intervento, gustando un aperitivo offerto dalla Sala da tè e Passaggi […]

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Giovedì 27 Agosto, presso la Sala da tè L’Uccellin bel verde, si è tenuto il primo incontro della rassegna Calici di scienza con l’Università di Camerino, dal titolo: Istruzioni per non restare senza architettura, tenuto da Pippo Ciorra. Il pubblico ha potuto così seguire l’intervento, gustando un aperitivo offerto dalla Sala da tè e Passaggi festival.

Il futuro dell’architettura

Pippo Ciorra è un architetto originario di Roma, nonché tra le tante cose docente di architettura presso l’Università degli studi di Camerino e senior curator del museo Maxxi di Roma. Come curatore si è spesso interessato alle emozioni che l’architettura suscita nelle persone. Da tanti anni il docente è impegnato in una battaglia per salvare l’architettura da una crisi che ormai dura da anni e che lo hanno spinto a scrivere nel 2011 il saggio: Senza architettura. Le ragioni di una crisi, edito dalla Casa editrice Laterza.

Innovazione e cambiamento

Per Ciorra si è diffusa, oggi, una certa sfiducia verso la figura dell’architetto, che deriva da una frattura, un gap venutosi a creare tra la società e gli stessi architetti. Questa crisi, cominciata probabilmente negli anni settanta, nasce da diversi fattori (dieci in particolare), che l’autore raccoglie all’interno del saggio, uno per ogni capitolo. Il primo problema che Ciorra individua riguarda il rapporto dell’architettura italiana con quella di altri paesi stranieri, spesso molto più aperti al cambiamento e all’innovazione. Nel saggio, l’ordine professionale viene descritto come una massa senza potere e poco organizzato, in cui la troppa concorrenza porta ad un abbassamento della qualità. Oggi invece, la situazione è quella di un drammatico calo delle iscrizioni alle facoltà di architettura. Il terzo problema riguarda il gap legato all’insegnamento che esiste tra le università italiane e quelle straniere. Questo divario sta fortunatamente diminuendo, nonostante la parola innovazione faccia ancora paura e vi sia un generale problema di organizzazione.

La città e i cittadini

Quello della città è un tema molto caro al docente, per cui gli architetti dovrebbero osservare e capire come le persone vivono all’interno della città e cambiare la disciplina rispetto al contesto. Un altro tema fondamentale è quello della politica. Per Ciorra l’architettura dovrebbe mantenere il suo legame con la sfera politica. L’estrema ideologizzazione però, tipica degli anni sessanta e settanta, ha contribuito a creare il gap tra la società e gli architetti sopraccitato, spingendo le persone a rivolgersi maggiormente verso altre figure professionali, come gli ingegneri.

“L’architettura è la missione di produrre significato attraverso la forma. Questa forma interagisce con la vita personale, collettiva, politica e sociale delle persone”

Critica, editoria, media e «architeinment»

All’interno del saggio, Ciorra lamenta l’assenza della critica italiana, scomparsa in seguito all’avvento della cultura di massa e dei grandi giornali dopo gli anni cinquanta. Egli critica inoltre, l’uso da parte degli architetti di un linguaggio troppo lontano da quello delle persone, la mancanza di un verbo comune che faciliti la comunicazione e che permetta di farsi capire. Oggigiorno, secondo l’autore, l’editoria d’architettura è un fantasma; tutto arriva su internet, mentre per quanto riguarda i media, questi preferiscono dare maggior spazio alle interviste con i grandi maestri. Un’altra tendenza odierna dell’architettura è quella di trasformarsi in intrattenimento, il cosiddetto «architeinment». Gallerie, centri di ricerca e musei che ormai non affrontano più l’architettura con l’idea di cambiare qualcosa nello spazio della vita delle persone, sacrificando così la teoria e il pensiero più solido, in nome del puro intrattenimento.

Arte e tecnologia

Secondo il professore, ciò che manca da sempre all’interno del mondo dell’architettura italiana, è l’arte. Dagli anni cinquanta in poi gli studenti di architettura italiani non hanno avuto contatti con l’arte contemporanea. L’architettura, secondo i teorici, doveva essere pura, l’arte era proibita poiché i grandi già si sentivano artisti (situazione molto diversa all’estero). L’ultimo capitolo del libro, incentrato sulla tecnologia, offre l’occasione di riflettere su una questione: che cosa deve essere l’architettura oggi. In alcune facoltà di architettura si insegna soltanto l’uso della tecnologia, dove gli architetti costruiscono robot. In altre università gli studi si concentrano principalmente sui “big data”, oppure sull’ecologia. Il docente vede un esplosione del mestiere di architetto in tanti campi che lo mettono in competizione, però, con altre figure professionali molto più adatte e che potrebbe determinare un giorno, proprio la morte di questa professione.

Superare la crisi

Il messaggio di Pippo Ciorra è semplice: «Ci deve essere sempre un minimo di “erotismo” proprio nell’atto del progetto, cioè di provare piacere nel considerare il disegno dello spazio il tuo linguaggio e raggiungere questi obiettivi che sono la sensibilità ecologica, la consapevolezza del potenziale della tecnologia, riconducendo il tutto a quella cosa che sa fare solo un architetto, mettere tutte queste cose insieme, dentro ad una forma». Questa è la grande battaglia che oggi deve affrontare l’architettura italiana. Per il docente è importante che l’architetto per prima cosa si diverta e mantenere comunque un proprio baricentro. L’architettura è esogena, nasce dai problemi, dallo spazio e dai bisogni delle persone, tuttavia deve trovare poi un punto di incontro tra il linguaggio artistico e il bisogno delle persone.

Le soluzioni individuate

La prima risposta che Pippo Ciorra ha dato a tutti questi problemi è stata attraverso una mostra al Maxxi, chiamata Re-Cycle. Il tema nasce dalla volontà di costruire oggetti dal nuovo, che nascessero dal conflitto tra vecchio e nuovo. La seconda risposta invece è quella di ripartire dalle case, idea espressa attraverso una mostra sull’architettura giapponese, dove per prima cosa gli architetti lavorano sulle persone, interessandosi allo spazio e all’uso dello spazio che ne faranno. Per salvare la propria professione, secondo Ciorra, gli architetti italiani dovranno fare proprio questo, riavvicinarsi ai bisogni delle persone.

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Il balcone in pietra: una storia sospesa tra Italia e Polonia https://2021.passaggifestival.it/balcone-pietra-romanzo-esordio-dagmara-bastianelli/ Wed, 02 Sep 2020 13:17:33 +0000 https://2021.passaggifestival.it/?p=75190 La seconda giornata del Passaggi Festival si è conclusa nella cornice dell’ex-Chiesa di San Francesco, dove l’autrice Dagmara Bastianelli ha presentato il proprio romanzo d’esordio, Il balcone in Pietra (Edizioni Dialoghi), dialogando insieme allo scrittore Lorenzo Pavolini. Andata e ritorno La storia della genesi dell’opera di Dagmara è molto particolare e vale la pena di […]

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La seconda giornata del Passaggi Festival si è conclusa nella cornice dell’ex-Chiesa di San Francesco, dove l’autrice Dagmara Bastianelli ha presentato il proprio romanzo d’esordio, Il balcone in Pietra (Edizioni Dialoghi), dialogando insieme allo scrittore Lorenzo Pavolini.

Andata e ritorno

La storia della genesi dell’opera di Dagmara è molto particolare e vale la pena di essere raccontata. Questo libro nasce nell’Aprile 2019 dalla decisione dell’autrice di tornare in Polonia dopo tanti anni. Vedere con nuovi occhi i luoghi dell’infanzia, quella Cracovia che per tanti aspetti è cambiata, rispetto ai ricordi di una bambina diventata ormai donna. Tornata in Italia, l’autrice inizia a dare forma alla propria opera, seguendo un flusso ininterrotto durato nove mesi. Inizialmente l’autrice voleva autopubblicarsi e regalare il proprio libro soltanto ad amici e parenti, poi, convinta dal proprio ragazzo ha deciso di inviarlo a varie case editrici, finché non è arrivata l’opportunità tanto cercata.

La ragazza dai due nomi e il tema della distanza

La decisione di nominare la protagonista “la ragazza dai due nomi” è una scelta particolare ed emblematica. Avere due nomi per l’autrice significa avere due identità, due lingue, due visioni del mondo. Questo dualismo nasce proprio dal fatto di aver dovuto abbandonare la propria terra da bambina. L’infanzia, secondo Dagmara, è il serbatoio dei ricordi, quindi la Polonia era diventata la terra della malinconia, della separazione. Scrivere questo libro perciò, è stato per l’autrice un modo per colmare la distanza con la propria terra d’origine, di amalgamare due culture, quella italiana e quella polacca e sugellare la pace con la propria infanzia.

L’infanzia lascia tanti semi che non vediamo, attraverso la scrittura sono diventati dei fiori, sono sbocciati

La ricerca come riscoperta

Un episodio chiave della vita dell’autrice è quello di aver perso i propri nonni in Polonia, fatto che si lega al tema dello sradicamento molto presente all’interno del romanzo. La perdita diventa allora, il simbolo della perdita delle radici e della ricerca vista come necessità. L’attività di ricerca, che ha occupato tanti giorni e tante notti della vita di Dagmara, si è trasformata in una ricerca di sé, delle proprie origini, la ricerca di un posto nel mondo. Il balcone in pietra, il titolo del libro, è per l’autrice il posto da cui osservare il mondo e sperimentarlo, come ha imparato a fare lei stessa, quando da piccola veniva educata all’arte e alla lettura proprio sul balcone di casa.

La scrittura come bisogno

Ciò che traspare più di ogni cosa dalle parole di Dagmara Bastianelli è l’amore per la scrittura, che lei stessa vede come uno strumento per conoscersi. Nonostante vi siano all’interno della storia momenti negativi e dolorosi, è importante per l’autrice lasciare un messaggio positivo che deriva proprio dal suo intendere la scrittura: un esercizio volto al miglioramento di sé. Il bisogno di scrivere e far conoscere la propria arte ha spinto Dagmara ad inviare un racconto per il notiziario culturale di Passaggi e contattare il direttore e ideatore del Passaggi Festival, Giovanni Belfiori. Poco tempo fa, la giovane autrice ha ricevuto l’opportunità di scrivere un pezzo per il Corriere della Sera dal titolo: “In questa Polonia c’è chi sparge odio”. A nome della redazione di Passaggi, perciò, le facciamo i migliori auguri per un buon proseguimento di carriera.

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La caduta della luna: un dialogo sospeso tra finzione e realtà https://2021.passaggifestival.it/caduta-luna-piece-leopardi-fellini/ Wed, 02 Sep 2020 07:00:32 +0000 https://2021.passaggifestival.it/?p=75044 Mercoledì 26 Agosto, nella magica cornice dell’Ex Chiesa di San Francesco, si è conclusa la prima serata del festival con la pièce teatrale La caduta della luna: una pièce intorno a Leopardi e Fellini, soggetto e sceneggiatura di Carolina Iacucci, regia di Carolina Iacucci e Sebastiano Valentini con Irene Guidi, Sebastiano Valentini e Tommaso Rizzitelli. […]

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Mercoledì 26 Agosto, nella magica cornice dell’Ex Chiesa di San Francesco, si è conclusa la prima serata del festival con la pièce teatrale La caduta della luna: una pièce intorno a Leopardi e Fellini, soggetto e sceneggiatura di Carolina Iacucci, regia di Carolina Iacucci e Sebastiano Valentini con Irene Guidi, Sebastiano Valentini e Tommaso Rizzitelli. Si tratta  della prima opera prodotta da Passaggi.

Il provincialismo in Leopardi e Fellini

Lo spettacolo, sin dalle prime battute, offre degli spunti di riflessione interessanti su svariati temi che accomunano due grandi personaggi della storia italiana: Leopardi e Fellini. Attraverso un brillante monologo viene affrontato il tema del provincialismo, incarnato dalla città di Rimini e di Recanati. Sia il regista romagnolo che il poeta marchigiano, annoiati dal proprio luogo di origine hanno deciso di abbandonarlo, ma hanno forse continuato a portare dentro di sé quella sorta di immobilismo tipico delle piccole province, seppur ad un livello più astratto.

La luna e/o la sfera onirica

Con il tema dell’immobilismo, viene presentato il terzo protagonista dei quest’opera: la luna. Due giovani estimatori, l’uno di Fellini e l’altra di Leopardi, dialogano proprio sul restare immobili, come la luna che non cambia mai. Sia il regista che il poeta sono due scrutatori di luna che non vogliono essere svegliati. Entrambi amano la sfera del sogno, di tutto ciò che è lontano e irreale, perciò amano la luna, che rimanendo fissa in cielo diventa “altro”, un testimone con cui confrontarsi ma che non può e non deve rispondere. Leopardi sa che essa non può comunicare, eppure la interroga poiché non è altro che lo specchio di sé. Egli arriva addirittura a prendersela con lei, come fosse una donna che lo respinge, una madre da cui egli vorrebbe tornare, per conoscere l’origine della propria esistenza.

Esistenzialismo e fuga dal reale

Nel film La voce della luna, Fellini descrive la cattura della luna in un paese completamente inventato. Un paesano coglie l’occasione per interrogare la luna riguardo l’origine della propria esistenza, come un figlio farebbe con la propria “madre lunatica”. Leopardi addirittura fa dialogare la terra e la luna nelle sue Operette morali, il trionfo dell’incomunicabilità in cui la luna schernisce la terra per le sue domande esistenziali: «Se hai caro d’intrattenerti in ciance, e non trovi altre materie che queste; in cambio di voltarti a me, che non ti posso intendere, sarà meglio che ti facci fabbricare dagli uomini un altro pianeta da girartisi intorno, che sia composto e abitato alla tua maniera.». Come Fellini inoltre, anche il poeta marchigiano aveva già raccontato della caduta della luna, nella sua opera Odi, Melisso. La caduta ovviamente avviene solo in sogno, anzi un incubo spaventoso, poiché la sfera che prima appariva bella e perfetta, avvicinandosi diventa sempre più grande e imperfetta, insomma reale. Il regista e il poeta sfuggono quindi dalla realtà, vogliono rimanere bambini e continuare a sognare. Proprio nel mondo onirico infatti, essi trovano il loro spazio, poiché «i desideri devono restare in cielo, lontani da noi, guai ad imprigionare la luna in un secchio.»

Conclusioni

Per concludere, il numeroso pubblico presente all’interno dell’ex Chiesa di San Francesco ha potuto apprezzare l’originalità dell’opera e la bravura degli attori che con estrema naturalezza hanno affrontato temi complessi come quelli presentati. Si può parlare di un grande successo insomma per Carolina Iacucci, che ne ha curato la regia insieme a Sebastiano Valentini, sul palco con Irene Guidi e Tommaso Rizzitelli. l’opera teatrale avevano già ottenuto il prestigioso patrocinio da parte di Fellini 100.

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Il populismo spiegato da Nadia Urbinati https://2021.passaggifestival.it/nadia-urbinati-populismo-democrazia/ Fri, 28 Aug 2020 12:11:17 +0000 https://2021.passaggifestival.it/?p=75071 Durante la rassegna Grandi Autori andata in scena il 28 Agosto in Piazza XX Settembre, la politologa e docente di Scienze politiche alla Columbia University di New York, Nadia Urbinati, autrice del saggio Io, il popolo (Il Mulino), ha conversato con la giornalista Alessandra Longo, affrontando temi quali il populismo, la crisi dei partiti moderni, […]

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Durante la rassegna Grandi Autori andata in scena il 28 Agosto in Piazza XX Settembre, la politologa e docente di Scienze politiche alla Columbia University di New York, Nadia Urbinati, autrice del saggio Io, il popolo (Il Mulino), ha conversato con la giornalista Alessandra Longo, affrontando temi quali il populismo, la crisi dei partiti moderni, i possibili risvolti e soluzioni da mettere in atto.

Il parassita della democrazia

Nel suo libro pubblicato per la prima volta nel 2019, Nadia Urbinati si discosta dai due approcci maggiormente adottati dall’opinione pubblica riguardo il tema del populismo, ossia quello della banalizzazione e della criminalizzazione, realizzando un’analisi sistematica del fenomeno. La docente infatti associa al populismo la metafora dell’edera che ricopre completamente l’albero, vivendo della sua stessa linfa fino a farlo morire. La morte dell’albero, tuttavia, porta anche alla morte dell’edera stessa, nel caso non trovasse un nuovo organismo da sfruttare. Il populismo non è un nuovo regime, bensì una forma di essere della democrazia. Esso nasce all’interno del sistema democratico, vivendo degli stessi suoi sistemi, come le elezioni e la propaganda, modificandolo però in maniera estrema ed aggressiva, così da creare di fatto un nuovo tipo di democrazia.

Il leader e il popolo

Secondo Nadia Urbinati il populismo costituisce un campanello d’allarme che ci suggerisce che qualcosa all’interno della nostra politica non funziona. Esso trasforma la maggioranza, esaltando al massimo la vittoria e presentandola come l’unica e vera, legittimata dal popolo che riconosce nella figura di un leader, l’unico suo rappresentante. Sebbene sia scritto nella costituzione, tuttavia, il popolo democratico non esiste, è solo un termine giuridico che permette di acquisire legittimità democratica. Il leader populista sfrutta proprio questo carattere legittimante del popolo, presentandosi come parte del popolo, per convincerlo di aver bisogno di un “campione” che lo rappresenti.

La lotta all’establishment

L’autrice spiega che a differenza del fascismo, il quale per paura tolse la libertà elettorale, il populismo vuole ed esalta il rischio, ha bisogno di trovare sempre un nemico. I leader populisti vivono in una perenne campagna elettorale, presentandosi come membri del popolo in lotta contro l’establishment, la casta. Il problema nasce quando esso diventa maggioranza. In quel caso il populismo ha due scelte, diventare come tutti gli altri che ha sempre criticato, oppure sfociare sempre di più in una forma autoritaria e decisionista, che limita la libertà.

L’uso dei media e dei social

Un tempo, la comunicazione politica avveniva attraverso la mediazione del partito, oggi invece subiamo ogni giorno una overdose di informazioni non mediate, in cui i leader populisti hanno un rapporto diretto con i social, con l’audience. L’immagine oggi conta più del dialogo e del discorso, perciò il populismo pensa di fare tutto da solo, togliendo lo spazio ai media. Se prima contava la promessa elettorale, oggi questa ha un ruolo marginale rispetto all’estetica, alla capacità di intrattenere il pubblico. Nessuno, oggigiorno, chiede più di rendere conto di una qualche promessa, poiché continuamente riceviamo un marasma di messaggi, parole e pubblicità, in maniera estremamente rapida. Il populismo, secondo Nadia Urbinati, non è altro che il riconoscimento di una democrazia duale: tutto ciò che sta dentro le istituzioni, che ormai non interessa a nessuno e ciò che sta fuori, nella sfera dei social e dei media e che si trasforma in audience.

Il ruolo dei partiti

La professoressa, all’interno del libro, offre anche una soluzione al populismo, che non può prescindere dalla ricostruzione dei partiti politici poiché “una democrazia senza partiti è una porta aperta alla fine della democrazia”. Una delle principali soluzioni sarebbe quella di poter mettere mano ad una norma sui partiti politici, per evitare che essi nascano e muoiano all’interno del parlamento senza che noi possiamo avere voce in capitolo. Il ritorno al finanziamento pubblico risulterebbe proprio per questo una decisione fondamentale e necessaria, poiché renderebbe i partiti molto più trasparenti. I partiti politici, infine, devono tornare ad avere una determinata progettualità politica e non solo discorsiva, poiché così facilitano solo l’ascesa del populismo, che si nutre di disagi e difficoltà.

La bellezza della democrazia

Il populismo mira ad umiliare l’opposizione, imporre un’idea precisa di popolo, indebolire il parlamento e aumentare il potere dell’esecutivo, in Europa e in Occidente in generale ci sono oggi soluzioni “borderline”, eppure rimaniamo all’interno della democrazia. Essa non porta sempre a risultati positivi, ma la sua bellezza è racchiusa proprio nella libertà di poter cambiare, di poter contraddirsi, di essere liberi di scegliere.

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La Dichiarazione dei diritti dell’Uomo e del Cittadino: il desiderio di una società più giusta https://2021.passaggifestival.it/dichiarazione-diritti-uomo-cittadino/ Thu, 27 Aug 2020 08:02:07 +0000 https://2021.passaggifestival.it/?p=74998 Costituito da 17 articoli, questo testo giuridico scritto nel corso dei tumultuosi anni della Rivoluzione francese, raccoglie al proprio interno gli ideali dell’Illuminismo e una moderna concezione di costituzione e democrazia.

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Duecentotrentuno anni fa, esattamente il 26 Agosto 1789, veniva emanata in Francia la “Déclaration des Droits de l’Homme et du Citoyen” (La Dichiarazione dei diritti dell’Uomo e del Cittadino). Costituito da 17 articoli, questo testo giuridico scritto nel corso dei tumultuosi anni della Rivoluzione francese, raccoglie al proprio interno gli ideali dell’Illuminismo e una moderna concezione di costituzione e democrazia.

“L’età dei lumi”

La “Dichiarazione dei diritti dell’Uomo e del Cittadino” nasce in seguito al successo ottenuto della prima rivoluzione francese, che aveva sancito, almeno temporaneamente l’instaurazione di una
monarchia costituzionale a discapito di quella assoluta.

Il testo trae ispirazione dalla “Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti d’America” scritta da Thomas Jefferson nel 1776. Entrambe condividono temi come l’uguaglianza tra gli uomini, l’accento posto sulla felicità individuale e i diritti inalienabili, idee che affondano le proprie radici nel pensiero illuminista del tempo.

Il Settecento aveva visto nascere la cosiddetta “Età dei lumi”, ossia quel periodo storico in cui, soprattutto in Francia, filosofi e scrittori come Voltaire e Montesquieu cercavano di rivoluzionare la società del tempo, attraverso una visione maggiormente incentrata sulla ragione umana, la conoscenza scientifica e la crescita culturale dell’individuo. Proprio questi ideali, insieme al grande desiderio di libertà e di emancipazione di tutti gli strati della società, porteranno alla rivoluzione francese e in generale ad una nuova concezione dell’individuo che confluirà appunto nella “Dichiarazione dei diritti dell’Uomo e del Cittadino”.

Gli ideali di una società giusta

Il primo articolo della Dichiarazione è probabilmente quello più emblematico, nonché maggiormente conosciuto: “Gli uomini nascono e rimangono liberi e uguali nei diritti. Le distinzioni sociali non possono essere fondate che sull’utilità comune.” In esso è racchiuso tutto lo spirito illuminista e gli ideali che avevano trionfato insieme alla Rivoluzione francese, eredità che ancora oggi noi portiamo avanti, essendo queste idee alla base di tutte le moderne costituzioni.

Forse non tutti sanno che il primo articolo della “Dichiarazione dei diritti dell’Uomo e del Cittadino” probabilmente deriva da una frase utilizzata per la prima volta da un gesuita italiano, tal Giovanni Pietro Maffei, che elogiando il sistema di governo della Cina della metà del Cinquecento, parlava di un paese giusto, dove ciascuno era fabbro del proprio destino. Nella Cina imperiale infatti i governanti venivano spesso scelti per meritocrazia, attraverso esami statali, mentre anche un contadino poteva diventare imperatore, a patto di riuscire a conquistare il favore del popolo e del cosiddetto “mandato celeste”. In realtà anche in Cina gli episodi di corruzione non erano pochi, tuttavia il mito di questo regno retto da ordine e giustizia aveva ormai preso piede anche in Francia, dove lo stesso Voltaire se ne dichiarava forte ammiratore.

Proprio un gesuita francese, Luis le Comte riprendendo cento anni dopo la frase di Maffei, elogerà ancora una volta la società cinese, in cui “la nobiltà non è ereditaria e non esistono distinzioni tra i cittadini, se non quelle derivanti dalle cariche ricoperte.” Una frase molto simile a quella che si ritroverà appunto nell’articolo uno della Dichiarazione del 1789.

L’Eredità

Nel corso del tempo, la “Dichiarazione dei diritti dell’Uomo e del Cittadino” verrà implementata, modifica e rivista, sia nel 1793 che nel 1795 usciranno due nuove versioni adattate al contesto e ai rapidi cambiamenti durante la Rivoluzione.

La Dichiarazione francese non ricevette soltanto elogi ed approvazioni ma anche qualche critica, soprattutto per aver escluso due principali categorie: le donne e gli schiavi. Celebre il testo polemico di Olympe de Gouges, una drammaturga francese che verrà ghigliottinata «per aver dimenticato le virtù che convengono al suo sesso», pubblicato nel 1791 con il titolo “La Dichiarazione dei diritti della Donna e della Cittadina”. Un’altra categoria esclusa è quella dei bambini, la loro assenza e le conseguenze della Grande guerra porteranno la Società delle Nazioni a pubblicare nel 1923 “La Dichiarazione dei diritti del fanciullo”.

Nonostante le critiche e le mancanze, figlie anche del tempo in cui fu redatta, la Dichiarazione del 1789 costituisce senza dubbio la base della nostra società civile, fondata sulla democrazia,
l’uguaglianza e diritti che ci appartengono e che dobbiamo difendere a tutti i costi e far rispettare.

La sua eredità confluirà nella “Dichiarazione universale dei diritti umani”, emanata dalle Nazione Unite nel dopoguerra, il 10 Dicembre 1948. Nell’articolo uno di quest’ultima ritroviamo la celebre frase che spesso oggigiorno, anche nel “moderno” e “civile” occidente tendiamo a dimenticare: “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di
coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza”.

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Tiziano Terzani: l’uomo che ha descritto l’Oriente https://2021.passaggifestival.it/tiziano-terzani/ Tue, 28 Jul 2020 09:08:59 +0000 https://2021.passaggifestival.it/?p=72894 Ha descritto gli orrori della guerra in Vietnam, la dissoluzione della Russia sovietica, l’occidentalizzazione dell’Asia e infine il suo ultimo viaggio, la ricerca di un rimedio ad un male incurabile che si trasformerà in una profonda indagine interiore.

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Il 28 Luglio 2004 ci lasciava, all’età di sessantasei anni, Tiziano Terzani, uno dei giornalisti e scrittori più noti in Italia, che con il suo sguardo indagatore e il suo amore per il viaggio ha descritto gli orrori della guerra in Vietnam, la dissoluzione della Russia sovietica, l’occidentalizzazione dell’Asia e infine il suo ultimo viaggio, la ricerca di un rimedio ad un male incurabile che si trasformerà in una profonda indagine interiore.

Tiziano Terzani nasce a Firenze il 14 Settembre 1938. Nonostante i problemi economici della famiglia, riesce a diplomarsi al Liceo Classico, collaborando nel frattempo con un giornale come cronista sportivo. Laureatosi in Giurisprudenza a pieni voti nel 1961, viene assunto dalla Olivetti e decide di sposare Angela Staude, con cui condividerà tutta la sua vita ed i suo innumerevoli viaggi.

L’impiego alla Olivetti lo porterà a viaggiare prima in Europa, poi in Asia e infine in Sud Africa dove realizzerà il suo primo reportage, sulla politica di Apartheid, scrivendo per l’Astrolabio di Ferruccio Parri. Lasciato il lavoro in azienda, Terzani ottiene una borsa di studio per la Columbia University di New York in Affari internazionali. Contemporaneamente egli continua a scrivere per l’Astrolabio, raccontando le lotte civili in America e le proteste contro la guerra in Vietnam. In
America Terzani inizia a studiare la lingua cinese e ad interessarsi alla Cina maoista, tornato in Europa riesce a farsi assumere come corrispondente dal giornale tedesco Der Spiegel, grazie al quale può realizzare il suo sogno di vivere in Asia, dove trascorrerà quasi trent’anni della sua vita, finché non tornerà in Italia, nella sua casa in Orsigna (Pistoia), per compiere il suo ultimo viaggio.

“Più ci si guarda attorno, più ci si rende conto che il nostro modo di vivere si fa sempre più insensato. Tutti corrono, ma verso dove? Perché? Molti sentono che questo correre non ci si addice e che ci fa perdere tanti vecchi piaceri. Ma chi ha ormai il coraggio di dire: «Fermi! Cambiamo strada»? Eppure, se fossimo spersi in una foresta o in un deserto, ci daremmo da fare per cercare una via d’uscita! Perché non far lo stesso con questo benedetto progresso che ci allunga la vita, ci rende più ricchi, più sani, più belli, ma in fondo ci fa anche sempre meno felici? Non c’è da meravigliarsi che la depressione sia diventata un male tanto comune. È quasi rincuorante. È un segno che dentro la gente resta un desiderio di umanità.”

Un indovino mi disse: cronaca di un viaggio insolito

Una delle maggiori opere per cui viene ricordato Tiziano Terzani, è senza dubbio Un indovino mi disse, pubblicato a Milano nel 1995. Questo libro nasce come racconto dell’anno (il 1993), in cui il giornalista toscano ha viaggiato per tutto il sud est asiatico, partendo dalla sua casa in Thailandia, fino in Europa e viceversa, senza prendere alcun volo, a causa della profezia di un indovino di Hong Kong, che lo aveva messo in guardia dal prendere aerei per tutta la durata dell’anno.

Il viaggio che decide di intraprendere Terzani non nasce solamente dalla volontà dello scrittore di non sfidare la sorte, ma si rivela anche un’occasione per rompere la monotonia di una vita abituata alle comodità che offre la tecnologia odierna. Un’opportunità di cambiare la prospettiva, conoscere aspetti dell’Asia, del popolo asiatico ma anche di sé che la vita sempre più frenetica non aveva permesso di cogliere. Il contesto in cui avviene ciò è quello dei primi anni ’90, il periodo in cui il fenomeno della globalizzazione vede l’inizio di un’intensificazione che continua tutt’ora, l’epoca dei boom economici in Asia (fino alla crisi del 1997) e della corsa verso la modernità.

Terzani viaggia attraverso la Thailandia, il Vietnam, la Cambogia, la Mongolia, la Cina, il Laos e la Birmania, documentando con il proprio sguardo e la propria penna la corsa frenetica verso l’occidentalizzazione asiatica, le contraddizioni di società passate attraverso il colonialismo, le guerre e le rivoluzioni, che hanno provocato la perdita inesorabile delle tradizioni, soppiantate da un desiderio di rivalsa e ricchezza.

Lo scrittore quasi per gioco, decide di visitare in ogni paese un indovino, utilizzando questi incontri come uno specchio per descrivere quei luoghi in cui, nonostante il “buio” portato dalla modernità, sopravvivono ancora oggi flebili tracce di riti e superstizioni che accompagnano e spesso condizionano la vita delle popolazioni asiatiche, sospese tra tradizione e modernità.

“Fu una splendida decisione e l’anno 1993 è finito per essere uno dei più straordinari che io abbia passato: avrei dovuto morire e sono rinato. Quella che pareva una maledizione s’è dimostrata una vera benedizione.”

Il turismo lento

Attraverso la sua scelta, Terzani ha riscoperto le distanze, l’importanza del tempo e soprattutto scorci di vita che spesso vengono ignorati nei viaggi convenzionali, dove ciò che importa è la meta e non il percorso. Oggigiorno la pratica del turismo lento o “slow travel”, sta tornando di moda anche in Italia, permettendo ai viaggiatori di muoversi con maggiore libertà, avere meno impatto negativo sull’ambiente e scoprire borghi e luoghi non colpiti dal turismo di massa, favorendo così la crescita dell’economia locale.

Seguendo l’esempio di Tiziano Terzani, oggi è persino possibile muoversi tra continenti in modo “lento” poiché il fenomeno si sta diffondendo in tutto il mondo, offrendo la possibilità ai viaggiatori di vivere appieno l’esperienza del viaggio e di entrare in contatto con la cultura locale, cambiando la prospettiva del proprio sguardo, riscoprendo il mondo e sé stessi.

 

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I fiori del male: bellezza nascosta ed eterna https://2021.passaggifestival.it/baudelaire-i-fiori-del-male/ Thu, 25 Jun 2020 09:35:08 +0000 https://2021.passaggifestival.it/?p=71659 Una raccolta di poesie tra le più celebri della storia della letteratura, in cui il poeta francese riversa tutto il suo malessere pur ricercando costantemente la bellezza del mondo.

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“La stoltezza, l’errore, il peccato, l’avarizia, abitano i nostri spiriti e agitano i nostri corpi[…] Ma in mezzo agli sciacalli, le pantere, le cagne , le scimmie, gli scorpioni, gli avvoltoi, i serpenti, fra i mostri che guaiscono, urlano, grugniscono entro il serraglio infame dei nostri vizi, uno ve n’è, più
laido, più cattivo, più immondo. Sebbene non faccia grandi gesti, né lanci acute strida, ridurrebbe volentieri la terra a una rovina e in un solo sbadiglio ingoierebbe il mondo. È la noia! L’occhio gravato da una lagrima involontaria, sogna patiboli fumando la pipa. Tu lo conosci, lettore, questo mostro delicato – tu, ipocrita lettore – mio simile e fratello”.

Così il poeta francese Charles Baudelaire (1821-1867) si rivolge al suo lettore modello, nell’introduzione all’opera che lo renderà celebre, I fiori del male, pubblicati a Parigi il 25 Giugno 1857.

L’opera risente del malessere interiore del poeta che stanco della propria condizione all’interno della società parigina, si rifugia in uno stile di vita Bohémien, fatto di eccessi spesso autodistruttivi, comportamenti dissacranti e immorali, temi che si ritrovano nella raccolta, il cui titolo nasce
proprio dalla volontà di Baudelaire di compiere un viaggio, insieme al lettore, verso il lato più oscuro dell’animo umano, utilizzando la poesia per “estrarre la bellezza dal male”.

Il viaggio, tra Spleen e Ideale

“Straordinari viaggiatori, quali nobili storie leggiamo nei vostri occhi profondi come il mare.
Oh, mostrateci gli scrigni della vostra ricca memoria, i gioielli meravigliosi fatti di astri e di etere”.
(Il Viaggio, Charles Baudelaire)

La stessa struttura dell’opera, che trova forma definitiva solo nel 1861, rimaneggiata da Baudelaire a causa di un’accusa di oltraggio alla morale pubblica e religiosa, suggerisce un itinerario immaginario, costituito da più di cento poesie divise in sei sezioni: “Spleen e Ideale”, “Quadri
parigini”, “Il vino”, “I fiori del male”, “La rivolta” e “La morte”.

Questo viaggio comincia con il concetto di Spleen, una forma di disagio esistenziale che nasce dall’incapacità del poeta di adeguarsi alla realtà in cui vive. L’artista, agli occhi di Baudelaire è simile ad un albatro, un gigante alato nato per volare in alto nel cielo e che una volta costretto a vivere in terra, appare goffo e ridicolo. L’ideale invece è quella bellezza che il poeta ricerca in continuazione, poiché appartiene in realtà ad un mondo irraggiungibile. La bellezza che solo l’arte può rendere eterna, come la “Notte” (la principessa di Sparta, Leda) di Michelangelo oppure la
Sfinge, una creatura mitologica che nasconde nei grandi occhi la “luce immortale”.

L’influenza della cultura ellenistica è evidente, non solo per quanto riguarda il concetto della bellezza ideale. Anche la parola spleen viene dal greco e significa “milza”, la cui bile nera prodotta dall’organo, secondo la medicina degli umori di Ippocrate di Cos, porterebbe ad uno stato di
malessere esistenziale, inquietudine e noia.

“Laggiù tutto è ordine, bellezza, lusso, calma e voluttà.
Guarda sui canali dormire vascelli dall’umore vagabondo:
è per assecondare il tuo minimo desiderio che vengono di capo
al mondo”.

(Invito al viaggio, Charles Baudelaire)

Fuga e partenza verso l’ignoto

Il viaggio tematico di Baudelaire, perciò si trasforma in una via di fuga, la noia e il malessere esistenziale portano a ricercare la pace attraverso un’attenta osservazione della realtà simboleggiata dalla città di Parigi, ma ciò che ci si ritrova davanti è una situazione angosciante che spinge il poeta ad evadere attraverso i fumi dell’alcool e delle droghe che diventano dei paradisi artificiali, simboleggiati dai Fiori del male e la ribellione contro la morale e la religione cristiana.

L’unica speranza è il viaggio verso la morte, in quell’ignoto tanto caro all’eroe omerico Odisseo, simbolo per eccellenza del viaggio che Baudelaire non nomina mai ma che sembra replicarne le gesta nel componimento poetico Il viaggio :

“Un mattino partiamo, il cervello in fiamme, il cuore gonfio de rancore e di voglia di amare, e andiamo seguendo il ritmo delle onde, cullando il nostro infinito sul finito dei mari: gli uni, felici di fuggire una patria infame, gli altri l’orrore delle proprie culle; e alcuni, astrologhi perduti negli
occhi d’una donna, Circe tirannica dai profumi fatali”.

Nella morte egli non ricerca un porto sicuro ma bensì un luogo, Cielo o Inferno non fa alcuna differenza, che potrebbe finalmente liberarlo dalla monotonia e dalla noia, quel mostro che Baudelaire ha combattuto tutta la vita, ricercando quella bellezza eterna che la sua arte e le sue
poesie ci hanno lasciato.

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Malcolm X: il volto umano del cambiamento https://2021.passaggifestival.it/malcolm-x/ Tue, 19 May 2020 09:12:18 +0000 https://2021.passaggifestival.it/?p=70810 La sua breve esistenza, scandita da cadute e risalite, morti e rinascite, è stata caratterizzata dalla voglia di non arrendersi, dalla necessità di cambiare la propria situazione e quella degli altri afroamericani

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“Nessuno può darti la libertà. Nessuno può darti l’ uguaglianza o la giustizia o qualsiasi altra cosa. Se sei un uomo, te le prendi.”

Il 19 Maggio 2020 si ricorda la nascita di Malcolm Little, al secolo Malcolm X, una delle figure più controverse della storia degli Stati Uniti d’America.

La sua breve esistenza, scandita da cadute e risalite, morti e rinascite, è stata caratterizzata dalla voglia di non arrendersi, dalla necessità di cambiare la propria situazione e quella degli altri afroamericani, vittime di una società xenofoba fondata dalla “razza bianca”.

Come in un viaggio dantesco, Malcolm Little, soprannominato “Red” per l’insolito colore rosso dei capelli o “Little Satan”, ha vissuto l’inferno della prigione e nel momento più drammatico della sua esistenza ha trovato nuova forza per continuare a combattere attraverso la religione islamica ed immergendosi totalmente nella lettura, diventando in breve tempo uno dei più importanti leader nella lotta per i diritti degli afroamericani, nonché uno dei più discussi.

Un destino già scritto

Malcolm Little nasce il 19 Maggio 1925 ad Omaha (Nebraska). Sua madre, Louise Little, originaria di Grenada, era per metà bianca, essendo nata in seguito ad uno stupro. Il padre era un predicatore battista, tale Earl Little, un fervente sostenitore delle idee dello scrittore giamaicano Marcus Garvey, il quale auspicava il miglioramento delle condizioni degli afroamericani negli Stati Uniti ed il loro il ritorno in Africa, la loro terra d’origine.

Il primo episodio che sconvolge la vita di Malcolm è la morte del padre nel 1931 (quando lui aveva appena sei anni). Ufficialmente investito da un tram, Malcolm sostenne sempre il coinvolgimento della “Legione nera”, un gruppo di fautori della “supremazia bianca” vicino al Ku Klux Klan che da anni tormentava Earl e la sua famiglia.

Questo episodio verrà riportato dallo stesso Malcolm nella sua autobiografia dal titolo omonimo, scritta nel 1965 insieme al giornalista Alex Haley.

Il secondo episodio è di qualche anno dopo, quando, da studente modello, Malcolm decide di abbandonare la scuola, in seguito alle parole del suo insegnante preferito che posero fine al suo sogno di diventare avvocato, giudicato dal maestro “non un obiettivo realistico per un negro”.

La conversione di Malcolm X

Lasciata la scuola, Malcolm trova lavoro come lustrascarpe e in seguito come cameriere su un treno, finché spostandosi ad Harlem (New York), cuore della cultura afroamericana, decide di “sbarcare il lunario” attraverso attività illegali, tra cui spaccio di droga, gioco d’azzardo, estorsione e rapina, ragione per cui viene arrestato nel 1946 e condannato a 10 anni di carcere.

In prigione, grazie ad un compagno di carcere, viene a conoscenza del gruppo NOI (Nazione dell’Islam) e del suo capo, Elijah Muhammad. Malcolm rimane affascinato dal pensiero di quest’ultimo.

Muhammad, attraverso la propria organizzazione, predicava la conversione all’Islam e il ritorno in Africa da parte degli afroamericani, strappati dalle proprie terre e tradizioni dall’uomo bianco, per essere usati come schiavi. Egli inoltre, appoggiando l’ideologia del “nazionalismo nero”, auspicava la creazione di una nazione nera separata, all’interno degli Stati Uniti.

Malcolm Little, seguendo gli esempi del suo nuovo mentore, decide di convertirsi alla religione islamica e abbandonare il proprio cognome, che gli schiavi acquisivano dal proprio padrone, scegliendo quella “X” con cui verrà sempre ricordato.

In questo frangente trova rifugio anche nella cultura e nello studio: trascrive, in cella, un dizionario intero e inizia a leggere opere di filosofia e storia. Comprende il ruolo fondamentale dell’istruzione nella lotta per l’emancipazione:

“L’istruzione è il nostro passaporto per il futuro, perché il domani appartiene alle persone che lo preparano oggi”.

Gli anni dell’attivismo

Uscito di prigione nel 1952, Malcolm X ha modo di conoscere di persona Elijah Muhammad, divenendo ben presto il suo braccio destro e ministro del Tempio numero due della NOI.

In questi anni di comizi e discorsi che rimarranno impressi nella storia, Malcolm X, con il proprio carisma e
con la propria rabbia, si fa portavoce della lotta degli afroamericani contro le ingiustizie e la violenza perpetuata da parte dell’uomo bianco.

La Nazione dell’Islam, dal 1952 al 1963 vede, grazie al lavoro di Malcolm, un enorme incremento del numero di iscritti, passando da cinquecento a trentamila membri.

La Cia e l’Fbi intanto iniziano ad indagare su di lui, sia per una sua presunta vicinanza all’ideologia comunista, sia per il suo continuo inneggiare alla violenza come risposta e come unico fondamentale diritto della comunità nera.

Il successo ottenuto da Malcolm X comincia però, ad essere considerato ingombrante anche per la stessa Nazione dell’Islam ed Elijah Muhammad inizia a temere un suo tradimento.

Nel novembre del 1963, davanti ai giornalisti, commentando la morte di John Kennedy, Malcolm dice: “Quando i polli tornano a casa per farsi arrostire io non sono triste”.

In seguito allo scalpore per queste parole, la Noi si distanzia da lui, vietandogli di tenere discorsi pubblici per almeno novanta giorni. Malcolm X decide allora di abbandonare l’organizzazione e fondare un
nuovo movimento, il Muslim Mosque, inc.

Nel 1964 Malcolm si reca in Egitto ed in seguito alla Mecca ed in lui avviene un altro cambiamento. Non solo abbraccia la corrente sunnita dell’Islam e sceglie il nome islamico di El-Hajj Malik El-Shabazz, ma una volta tornato negli Stati Uniti, inizia a parlare di diritti umani inalienabili per tutti, non soltanto per gli afroamericani.

Insieme al giornalista A.Peter Baily, inoltre, fonda l’Organizzazione per l’Unità Afro-americana (OAAU).

La morte di Malcolm X

Fin dal suo ritorno negli Stati Uniti, Malcolm e la sua famiglia sono vittime di diversi attentati e minacce.

Il 21 Febbraio 1965 egli viene invitato a tenere un discorso all’Audon Ballroom di Manhattan (New York), davanti a 400 persone, compresa sua moglie e le sue figlie.

Durante l’ intervento, tre persone, poi identificate come membri della NOI, si alzano in piedi in mezzo al pubblico e iniziano a sparare.

Malcolm X muore così, a 39 anni; sul suo corpo vengono trovate ventuno ferite da arma da fuoco, inferte non da membri di un’organizzazione estremista per la “supremazia bianca”, ma  da quelle persone di cui si era sempre fatto portavoce.

L’eredità

L’eredità lasciata da Malcolm X, al pari di quella di Martin Luther King jr, è incommensurabile e per questo è giusto oggi ricordare uno dei leader più grandi della storia afroamericana.

Contemporaneo a King, Malcolm ha sempre avuto idee molto diverse, sebbene nell’ultimo periodo della loro vita i due si fossero avvicinati.

Egli ha sempre considerato la politica non violenta del reverendo impraticabile, l’autodifesa era a suo dire, l’unico modo di portare un reale cambiamento; mentre l’uno parlava del “sogno”, l’altro parlava dell’”incubo americano”.

Martin Luther King veniva dal mondo piccolo borghese di Atlanta, mentre la rabbia di Malcolm X veniva dalla strada, dalla povertà e dalle ingiustizie perpetuate dall’”uomo bianco”, ai danni della comunità nera in America.

Ogni uomo vittima di soprusi avrebbe potuto nascondersi dietro quella X, dietro a quel volto e a quella voce che inneggiavano al cambiamento, “con ogni mezzo necessario”.

Dall’autobiografia di Malcolm X, il regista Spike Lee ha tratto l’omonimo film nel 1992, con una grande interpretazione di un giovane Denzel Washington.

Nelle ultime sequenze del film viene mostrato un discorso toccante di Nelson Mandela, prima di questo, le parole di una maestra ai suoi studenti: “Il 19 Maggio, noi celebriamo la nascita di Malcolm X, perché è stato un grande, grande afro-americano. Malcolm X siete voi, ognuno di voi, e voi siete Malcolm X”


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Cultura e tecnologia: come la Cina ha affrontato l’epidemia https://2021.passaggifestival.it/cina-cultura-tecnologia-covid-epidemia/ Mon, 04 May 2020 06:15:34 +0000 https://2021.passaggifestival.it/?p=70438 In 50 giorni circa di chiusura, le mostre online dei musei hanno totalizzato più di 5 miliardi di visualizzazioni. I visitatori tra i 26 e i 35 anni sono stati il 40 percento.

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cina e cultura epidemia covid coronavirus

Foto di Pete Linforth da Pixabay

 

Cina e cultura. In questi giorni di dibattito in Italia sulle misure da adottare per un sicuro e graduale rientro ad una vita quotidiana post-Covid19, i principali discorsi che dividono opinione pubblica e politica sono essenzialmente due: quando si potranno riaprire i negozi, le aziende e i luoghi di interesse come musei e biblioteche e il ruolo che d’ora in avanti avrà la tecnologia nelle nostre vite, insieme alle varie implicazioni in termini di privacy, legate al suo utilizzo.

Nel nostro paese, numerosi musei e mostre d’arte, con qualche difficoltà, si sono adattate all’emergenza, utilizzando risorse tecnologiche d’avanguardia, per creare spazi virtuali dedicati ai visitatori online. La mancanza di introiti generati da un’utenza fisica tuttavia, mette a dura prova sia le grandi sia le piccole entità, che con molta probabilità dovranno aspettare ancora un paio di settimane prima di poter riaprire e che in ogni caso dovranno adottare misure che garantiscano la sicurezza e la salute dei cittadini.

Cina e cultura al tempo del Covid-19

Un paese che ha dovuto adottare prima di noi delle misure legate alla convivenza con il virus, è stata la Cina. Alla fine di gennaio il governo centrale è stato costretto a chiudere tutti i musei e i luoghi di interesse del paese, adottando tuttavia fin da subito alcune misure per tutelare le attività culturali e spingere l’innovazione attraverso le nuove tecnologie di realtà virtuale ed esperienza di gioco.

Oggi assistiamo in Cina a una lenta riapertura di queste istituzioni culturali, simbolo del ritorno ad una normalità, contraddistinta, però, da rigide misure di controllo sociale e regole severe, in cui la stessa tecnologia svolge un ruolo vitale, per evitare una nuova propagazione del virus.

Le mosse del governo cinese in realtà vanno ricercate nella tradizione antica, dove la cultura svolgeva un ruolo fondamentale e il collettivismo e l’armonia erano allora e sono ancora oggi, dei concetti da preservare, a discapito a volte della trasparenza e della privacy.

È interessante vedere come un paese così lontano e diverso dal nostro, si stia muovendo o si è mosso in passato, per aprire spunti di riflessione che vadano oltre il pregiudizio. Nonostante le distanze e le politiche per certi versi contrastanti, Cina e Italia sono accomunate da un amore profondo per la cultura, la quale ha caratterizzato la storia di entrambe i paesi, e che oggi come non mai, si trova in pericolo, di fronte a un nemico che non conosce la bellezza di un’opera d’arte.

L’importanza della cultura in Cina

In Cina, la cultura 文化 (wenhua), è ciò che distingueva i membri della civiltà cinese dai barbari che minacciavano i suoi confini. Ben prima della Grande Muraglia che delineò al tempo un concetto di confine fisico, la cultura costituiva un confine mobile; sentirsi cinese (ossia appartenere alla gloriosa civiltà) era una questione meramente culturale.

In epoca imperiale, lo studio dell’arte e della letteratura erano così importanti, da essere l’unico sistema per accedere al potere. Gli aspiranti mandarini (funzionari-letterati), dovevano passare un esame scritto alquanto difficile e costoso, una sorta di concorso pubblico per eleggere, non il miglior amministratore, ma il più preparato in ambito culturale.

Anche un’ideologia proveniente dall’esterno, come il comunismo, è dovuta scendere a patti con alcuni aspetti della tradizione confuciana, insiti nel cuore del popolo cinese, e che ancora oggi determinano un aspetto culturale molto importante. Una società collettiva, basata sul sacrificio dell’individuo per il beneficio del gruppo, è alla base degli insegnamenti di Confucio, come il rispetto di qualunque autorità, familiare o statale che sia. Tutto ciò contribuisce a generare un’armonia e una pace tra gli uomini che va preservata, affinché non avvengano rivolte che mettano in pericolo l’esistenza dell’autorità stessa.

“Se c’è rettitudine di cuore, ci sarà bellezza di carattere. Se c’è bellezza di carattere, ci sarà armonia nella casa”. (Confucio)

cina e cultura grande muraglia cinese

Foto di jl w da Pixabay

Cina e cultura dell’innovazione per superare la crisi

Il 24 Gennaio, in seguito allo scoppio dell’epidemia da Covid-19, la Cina ha deciso di annullare i concerti, le mostre e chiudere i maggiori musei del paese, seguiti poi da altre istituzioni culturali, come i templi, i teatri e persino un segmento della Grande Muraglia, vicino alla capitale Pechino.

Consapevole della storica importanza che la cultura rappresenta nella società, il governo cinese, attraverso l’Ufficio Nazionale per i Beni Culturali, ha immediatamente annunciato il lancio di una piattaforma online che racchiudesse tutti i musei del paese, presentandosi come una mappa interattiva.

Questa iniziativa ha avuto un enorme successo, sia per quanto riguarda gli utenti, che hanno potuto usufruire di un servizio online rimanendo in casa, sia per quanto riguarda le stesse istituzioni culturali che hanno potuto sviluppare una fitta rete di collaborazioni e scambi, che ha generato, a sua volta, un boom di mostre e iniziative online.

Ad inizio Febbraio, è stata anche organizzata un’asta d’arte online (la prima di tante), a cura di alcuni musei, istituzioni culturali e organizzazioni di eventi, il cui ricavato è stato devoluto completamente in beneficienza per l’acquisto di materiale medico per gli ospedali.

In seguito i musei, già da tempo visitabili attraverso i maggiori social media cinesi (WeChat, WeiBo, Douyin, Taobao ), hanno rafforzato la loro presenza online, organizzando mostre virtuali, concerti in “live streaming” e video-lezioni, utilizzando nuove tecnologie come le animazioni, i giochi, esperienze di realtà virtuale e realtà aumentata, per coinvolgere maggiormente gli utenti.

Secondo i dati raccolti da Jing Travel (www.jingtravel.com), un’agenzia esperta di turismo culturale in Cina, tra il 24 Gennaio e l’8 Febbraio, milletrecento musei hanno organizzato più di duemila mostre online. I casi emblematici sono quelli dei nove musei che hanno organizzato il loro tour in “cloud” su Douyin (TikTok) e altri 8 musei il 23 Febbraio su Taobao Live; questi ultimi, in particolare, hanno accolto sulla piattaforma tre milioni di visitatori durante il proprio “live streaming”.

L’idea del museo di arte contemporanea UCCA a Pechino, di organizzare un concerto con alcuni artisti cinesi come Feng Mengbo e il compositore giapponese Ryuichi Sakamoto, su una piattaforma streaming anticonvenzionale come Kuaishou (un social network per la condivisione di videoclip, utilizzato soprattutto da utenti provenienti da realtà rurali), è stata davvero un successo, attirando al suo interno, come riportato dal sito Judith Benhamou-Huet Reports (www.judithbenhamouhuet.com/how-museums-are-responding-to-the-crisis-2-the-reactions-of-directors-from-beijing-to-paris/), quattro milioni di utenti.

Il segreto di questo risultato è stato quello di aver unito, in questo momento difficile, milioni e milioni di persone appartenenti ad ogni classe sociale, attraverso il connubio di arte, tecnologia e innovazione. In mezzo a tutte queste mostre ed esibizioni, c’è spazio anche per l’Italia, grazie all’iniziativa del Museo del Sichuan, che ha mostrato al pubblico, centotrentaquattro reperti provenienti dal Parco Archeologico di Paestum, splendido esempio della presenza greca nel nostro paese.

Analizzando ancora una volta i dati di Jing Travel, i numeri sono veramente incredibili, in cinquanta giorni circa di chiusura dei musei in Cina, le mostre online hanno totalizzato più di cinque miliardi di visualizzazioni, inoltre i visitatori di età compresa tra i 26 e i 35 anni sono stati ben il quaranta per cento.

Cina, ripresa lenta e ‘controllata’

Nei primi giorni di Marzo, con il calo dei contagi, la situazione sta lentamente tornando alla normalità. Tra il 10 e il 15 Marzo più di trecento musei hanno riaperto le proprie sale al pubblico, con delle severe restrizioni.

Il museo di arte contemporanea “Power Station of Art” (PSA) di Shanghai, che ospita anche la più conosciuta Biennale, ad esempio, deve rispettare dei protocolli di disinfestazione quotidiana, come ha spiegato una portavoce del museo in un’intervista dell’Art Newspaper.

Il museo ha inoltre predisposto delle aree di quarantena temporanea in ogni piano e dei rilevatori di temperatura. I visitatori, per accedere a qualunque museo, dovranno mostrare la propria carta d’identità e il “codice sanitario” obbligatorio per legge, attraverso cui si avrà accesso alle informazioni sugli spostamenti e sullo stato di salute.

Questo codice, sottoforma di QR code scansionabile, si ottiene attraverso App come WeChat e Alipay (qui per approfondimenti). L’accesso ai musei inoltre, deve avvenire per prenotazione (a numero limitato), attraverso WeChat, mentre gli utenti all’interno della struttura sono costretti a rispettare una distanza di un metro e mezzo gli uni dagli altri e portare le mascherine.

In contemporanea con i musei, stanno riaprendo anche altri luoghi di interesse. A fine Marzo, ad esempio, una parte della Grande Muraglia a 80 chilometri da Pechino, è stata riaperta al pubblico (non più di diciannovemila e cinquecento persone), con le stesse restrizioni adottate dai musei, così come il mausoleo dell’Imperatore Qin Shi Huang (nella città di Xi’an), dove l’accesso giornaliero sarà garantito ad un massimo di ottomila visitatori, che ovviamente dovranno prenotarsi e fare a meno di guide fisiche e gruppi turistici.

Tecnologie per innovare e controllare in nome dell’ “armonia”

La Cina, in conclusione ha affrontato e sta affrontando l’epidemia da Covid-19 attraverso la tecnologia, un mezzo che può essere usato per innovare ma anche per controllare e garantire così quell’ “armonia” che, come abbiamo visto, è alla base della sua cultura.

L’innovazione sta cambiando il modo con cui i cinesi si rapportano alla cultura e all’arte. Tutto gira intorno all’esperienza e alla condivisione collettiva, di cui essi oggi sono maestri. Il successo ottenuto durante l’emergenza potrebbe spingere i musei cinesi ad investire sempre di più sul mondo dei social network e anche spronare altri musei, come quelli italiani, a seguire il loro esempio.

Questo sistema in Italia, permetterebbe a chiunque di poter visitare musei, gallerie d’arte ed assistere a concerti, rimanendo sul divano di casa. Fino a che punto però l’esperienza di realtà virtuale potrà essere considerata pari o addirittura superare quella reale?

Alla luce dei nuovi dibattiti sulla tecnologia in Italia, guardando l’esempio della Cina, quanto potrebbe essere valido e accettato questo sistema di controllo, in un paese come il nostro, dove temi come privacy e libertà d’opinione sono alla base della nostra cultura? (per ulteriori approfondimenti: www.theguardian.com/world/2020/mar/09/the-new-normal-chinas-excessive-coronavirus-public-monitoring-could-be-here-to-stay).

Cina, consigli di lettura

– Maurizio Scarpari, Il confucianesimo: I fondamenti e i testi, Einaudi, 2010
– Maurizio Scarpari, Ritorno a Confucio: la Cina di oggi fra tradizione e mercato, Il mulino, 2015
– Alessandra C. Lavagnino – Silvia Pozzi, Cultura cinese: segno, scrittura e civiltà, Einaudi, 2013
– Duncan Clark, Alibaba: la storia di Jack Ma e dell’azienda che ha cambiato l’economia globale,
Hoepli, 2017
– Giada Mesetti, Nella testa del dragone: Identità e ambizioni della nuova Cina, Mondadori, 2020
– Federico Rampini, Il secolo cinese, Mondadori, 2005


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