Indice
- 1 Esiste qualcosa che Dalì non sappia fare?
- 2 Dalì era un passo avanti a tutti. E lo sapeva
- 3 Le affinità con Dante
- 4 Dalì e Dante, i geni che peccano di superbia
- 5 Dalì, il Don Chisciotte moderno
- 6 Se la finzione è più vera della realtà
- 7 Dalì non nasconde l’arte nel sogno di Alice
- 8 Perché Dalì non può essere ricordato per la sua morte
Celebrare l’anniversario della nascita di Dalì, che fu dato alla luce l’11 maggio del 1904, è il miglior modo per ricordarlo. Non tanto per l’intrinseco valore della nascita rispetto alla morte. Anzi. A volte la morte può nobilitare la vita di una persona. Pensiamo, per esempio, a molti caduti di guerra, di cui si ricorda proprio il loro sacrificio.
Salvador Dalì, però, amava nascere. Egli si reinventava costantemente, dando vita di volta in volta a personaggi diversi. Tra i vari ruoli che Dalì ha voluto ricoprire nel corso della sua esistenza, vi è anche quello di illustratore di opere letterarie. Nel 1952 Dalì illustrò la Divina Commedia di Dante Alighieri con 102 acquarelli. Ne 1958 preparò le illustrazioni del Don Chisciotte della Mancia di Miguel de Cervantes per accompagnare una rara edizione del 1946. Nel 1969 l’artista realizzò 12 litografie, una per ogni capitolo più una per la copertina, di Alice nel paese delle meraviglie di Lowis Carroll.
Esiste qualcosa che Dalì non sappia fare?
Su YouTube si può vedere la registrazione di un vecchio quiz televisivo che consisteva nell’indovinare l’identità di un personaggio ponendogli alcune domande: una sorta di “indovina-chi” del mondo reale. Il personaggio di questo episodio è proprio Salvador Dalì, allora già conosciuto in tutto il mondo.
Il video diventa divertente nel momento in cui ci si rende conto che Dalì risponderà “sì” a tutte le domande. “Sei un performer?” “Sì”. “Sei uno scrittore?” “Sì”. “Sei un illustratore?” “Sì”. Una delle concorrenti, a un certo punto, chiede: “Esiste qualcosa che quest’uomo non sappia fare?”. La risposta è, stranamente, “sì“. I concorrenti capiscono di chi si tratta dopo una domanda molto singolare: “Ha baffi con una forma strana con i quali è anche in grado di dipingere?”.
Questo piccolo sketch può dare un’idea di come l’unico modo per afferrare la personalità di Dalì non sia attraverso le etichette sociali tradizionali. Non tanto perché lui non svolgesse attività “normali”. Dopotutto, Dalì si può anche definire, a tutti gli effetti, un pittore. Il punto è che tutte le cose che faceva, anche quelle più banali, le realizzava nel modo più originale possibile.
Dalì era un passo avanti a tutti. E lo sapeva
Questo approccio lo collocava sempre un passo avanti agli altri e lui ne era consapevole. Una delle sue citazioni più celebri e rappresentative è la seguente: “Il primo uomo che comparò le guance di una donna a una rosa era evidentemente un poeta. Il primo che lo ripeté era probabilmente un idiota.”
Ecco perché, quando gli furono commissionate le illustrazioni di eminenti opere letterarie, Dalì accettò. In primis perché amava fare cose nuove. In secundis perché coglieva sempre l’occasione per stravolgerle, le cose. Illustrare i pilastri della letteratura tradizionale seguendo la tecnica surrealista era in grandissimo stile Dalì. In terzo luogo le opere in questione stimolavano Dalì nel rappresentarle a causa dell’affinità con l’autore o la trama dell’opera.
Le affinità con Dante
La similarità di Dalì con Dante e la Commedia è forse meno intuibile rispetto a quella con le altre due opere. In realtà, però, hanno moltissimo in comune, a cominciare dalla poderosa immaginazione di Dante. Questa si manifesta in tutta la sua potenza soprattutto nel libro dell’Inferno, che brulica di minuziosi dettagli. Come sappiamo, con l’avvicinarsi di Dante al Paradiso, i dettagli svaniscono, per lasciare il posto a una luce sempre più accecante, che culmina con la visione di Dio. Lo stesso effetto lo vediamo nelle illustrazioni di Dalì. Spaventosamente dettagliate quelle dell’Inferno, coinvolgenti e luminose quelle del Paradiso. E in tutte, ovviamente, troviamo un’esuberante immaginazione.
Bisogna precisare che la perdita dei dettagli narrativi non è causata dall’affievolirsi dell’immaginazione del Poeta Vate, anzi. Questa era arrivata talmente lontano (la visione di Dio!) al limite dell’umanamente descrivibile, che solo l’incontro con un’altra immaginazione, quella del lettore, avrebbe potuto completare l’opera.
Curiosamente questo processo stilistico è tipico anche della corrente surrealista (giusto per rendere l’idea di quanto Dante sia eterno). Il surrealismo non vuole rappresentare la realtà, bensì l’interiorità dell’artista. Tanto che il post-modernismo, poi, esaspererà e concluderà questo processo, riversando l’intero senso delle opere nell’interpretazione libera da parte del pubblico, il quale è il solo in grado di renderle vive. L’artista, in questo senso, si toglie completamente.
Dalì e Dante, i geni che peccano di superbia
Né Dalì né Dante, però, avevano intenzione di “togliersi”. È infatti noto come il Poeta Vate peccasse di superbia. Lo spiega bene Pier Angelo Perotti nel saggio Superbia e invidia nell’inferno dantesco. Si provi anche solo a pensare al fatto che Dante si sia auto-eletto come l’unico essere umano in grado di meritare la visione diretta di Dio. In più, Dante scelse niente meno che Virgilio come guida, considerandosi successivamente quasi al suo stesso livello poetico. Un atteggiamento piuttosto presuntuoso, se si pensa che al tempo Dante non era, di fatto, nessuno. Il congedo di Virgilio da Dante (Pg. XXVII) ne è una prova:
“Non aspettar mio dir più né mio cenno;
libero, dritto e sano è tuo arbitrio,
e fallo fora non fare a suo senno:
per ch’io te sovra te corono e mitrio”.
Virgilio qui incorona Dante, autorizzandolo a procedere senza la sua guida poiché lo ritiene in grado di poetare da solo.
In Dalì la superbia è ancora più palese. La differenza tra me e i surrealisti – ha detto – è che io sono surrealista. Ritenendosi, quindi, l’unico vero rappresentante di questa corrente. Un altro esempio è la sua autobiografia che lui ha intitolato Diario di un genio. E la lista potrebbe continuare.
Dalì, il Don Chisciotte moderno
Ma soprattutto a Dalì non importava il giudizio altrui e per questo l’artista ha affrontato moltissimi problemi sociali ed interpersonali nel corso della sua vita. Nel 1923 è stato arrestato per tendenze anarchiche e tenuto in carcere per 35 giorni. Nel 1934 i membri del movimento surrealista lo espulsero dal gruppo. Nel 1939 gli venne impedito dall’Esposizione Internazionale di New York di mettere una testa di pesce sulla Venere di Botticelli, tanto che poi pubblicò la sua Dichiarazione d’indipendenza dell’immaginazione e del diritto dell’uomo alla propria pazzia.
Ecco che qui fa capolino l’affinità con Don Chisciotte. Un outsider che non ha paura di essere se stesso, anche se l’essere se stesso significa essere folle. Unamuno spiega questo concetto in un saggio proprio sull’antieroe di Cervantes:
“Sapeva molto bene, Don Chischiotte, che i mulini a vento erano mulini e non giganti, quando si confrontava con loro come se lo fossero. Ma lui voleva che lo fossero e dava luogo alla sua impresa cercando eroicamente quella che il mondo considerava una sconfitta, e che invece non lo era – Io so chi sono! – esclamò una volta in modo arrogante, ed era la verità: lui sapeva chi era”.
Se la finzione è più vera della realtà
Insomma, per quanto la realtà sembra essere lontana dal personaggio di Don Chisciotte, ma anche dal personaggio che Dalì si creò nel corso del tempo, la loro finzione è, secondo loro, più vera della realtà stessa. Anche questo, d’altra parte, è un concetto tipico surrealismo: l’arte non deve imitare la realtà perché facendolo si rende fautrice di una grande menzogna. I realisti, in un certo senso, ingannano il pubblico, cercando di convincerli che la realtà sia perfettamente rappresentata dalla loro opera. Chi invece mostra un mondo altro, come può essere quello nascosto dell’inconscio, sigla al principio un patto con il pubblico (il famoso patto narrativo degli scrittori), dopo il quale è libero di lasciarsi andare e fingere in completa sincerità.
“L’arte progressista – ha detto Dalì – può aiutare le persone a conoscere non solo le forze oggettive all’opera nella società in cui vivono ma anche il carattere intensamente sociale delle loro vite interiori. In ultimo può spingere le persone verso l’emancipazione sociale.”
Dalì non nasconde l’arte nel sogno di Alice
Un’opera esemplare degli anni ’20 (anni in cui si è sviluppato il surrealismo) che può rendere al meglio la dicotomia realtà-finzione tanto in voga in quei tempi è l’Enrico IV di Pirandello. Il protagonista impazzisce dopo aver sbattuto la testa in un incidente, credendosi un grande re del passato, appunto l’Enrico IV. Quando rinsavisce, però, decide di non comunicarlo a nessuno e di fingersi pazzo per il resto dei suoi giorni. Motivo? In questo modo avrebbe meglio sopportato la dolorosa presa di coscienza della realtà.
Come Enrico IV si può dire che anche Dalì abbia scelto consapevolmente di essere considerato pazzo dalle persone, facendo della sua vita un gigantesco meta-racconto.
Il meta-racconto per eccellenza è Alice nel paese delle meraviglie. Grazie al fatto che Alice si trova in un sogno, l’autore è libero di inventare i mondi più assurdi possibili. E Dalì, con questo, ci va a nozze. Tanto che le sue illustrazioni per questo romanzo sono molto ermetiche, quasi psichedeliche e riflettono totalmente il non-sense del romanzo di Carroll.
Perché Dalì non può essere ricordato per la sua morte
Il genio di Dalì, però, non si esprimeva soltanto attraverso l’arte pittorica e la sua immaginazione non necessitava di stimoli esterni. Dalì, insomma, non aveva bisogno di nascondersi in un sogno, in una caduta da cavallo, in un’allegoria. E nemmeno nei suoi stessi dipinti. La sua arte è tutta interamente nella sua testa e nella sua persona. “Io non mi drogo, io sono la droga”, disse.
Ecco perché Dalì ha espresso il suo genio in qualunque modo, in qualunque tempo e in qualunque luogo. Realizzò il suo primo dipinto a 6 anni e non si è più fermato. E quando il mondo esterno non gli bastò più, Dalì ha fatto di se stesso un’opera d’arte, con i suoi baffi e le sue performance. Il suo unico limite era la morte. Prima ancora della sua, quella della moglie e musa Gala. Dopo il suo decesso, infatti, Dalì si rifugiò in un castello, solo e lontano dalla società, cosa assolutamente anomala per lui. Ecco perché Dalì non può essere ricordato per i suoi ultimi anni, quelli senza arte, bensì per la sua nascita. Perché con lui è anche nata la sua più grande opera: se stesso.