A Livorno è stata conferita, lo scorso 19 gennaio, la cittadinanza onoraria a Letizia Battaglia, la grande fotografa di cui Passaggi Festival ha ospitato nell’edizione 2018, nei locali di Casarredo in centro storico a Fano, la personale “Punctum Donna“.
La cittadinanza livornese è un omaggio che si aggiunge alla mostra che la città toscana dedica alla fotografa palermitana ai Granai di Villa Mimbelli, fino al prossimo 15 marzo, dove saranno esposte cinquanta tra le fotografie più rappresentative della lunga carriera della prima donna europea ad aver ricevuto il Premio Eugene Smith, il riconoscimento internazionale più prestigioso nell’ambito del foto-giornalismo.
Spesso definita dai media «fotografa di mafia», Letizia Battaglia ha sempre detestato e amabilmente rispedito al mittente quest’etichetta, da lei considerata riduttiva e fuorviante: si è sempre considerata, infatti, soprattutto una fotografa della società palermitana e, da quando nel 1969 ha cominciato a lavorare per la redazione dello storico quotidiano L’Ora ad oggi, non ha mai smesso di dedicare il suo impegno di reporter non tanto alle esigenze della cronaca nera – per sua definizione, effimera, consumistica – quanto a quelle dell’archivio, di quel racconto storico che, col passare del tempo, non smarrisce la sua urgenza, ma anzi acquisisce un valore testamentario sempre maggiore.
Benché interessata alla diversità culturale e amante dell’Africa, allieva spirituale di Ryszard Kapuściński, Letizia Battaglia è stata una foto-reporter sui generis, più ‘verticale’ che ‘orizzontale’: il suo viaggio non si è consumato nello spazio ampio di luoghi sempre diversi, ma in uno stesso luogo, un microcosmo rappresentato dalla sua Palermo, di cui ha indagato, grattando la superficie e andando sempre più a fondo, splendori e miserie, le più efferate violenze e gli inattesi squarci di bellezza, in una ricerca incessante di umanità e giustizia.
Testimone della ferocia degli anni Piombo e degli omicidi di mafia, ricordata soprattutto per gli scatti che, nel 1979, ritraggono all’Hotel Zagarella gli esattori mafiosi Salvo insieme ad Andreotti e che furono poi acquisiti agli atti per il processo, a Letizia Battaglia è sempre importato, però, soprattutto rivendicare l’esplorazione del mondo femminile e della sua, spesso svilita, complessità.
Molti dei soggetti delle sue fotografie sono, infatti, donne o bambine con sguardi corrucciati o un’ombra sul volto, quasi a suggerire una gravità invincibile, un senso di fatica nell’attraversare giorni sempre uguali e sempre, in qualche modo, minacciosi.
«Amo fotografare le donne perché sono solidale: devono ancora superare tanti ostacoli verso la felicità, in questa società maschilista che le vuole eternamente giovani, belle, con una concezione dell’amore che spesso, in realtà, è solo possesso – ha dichiarato una volta la fotografa, che a inizio marzo spegnerà 84 candeline – Cerco gli occhi profondi e sognanti delle bambine: mi ricordano me stessa a dieci anni, quando mi resi conto, di colpo, che il mondo non era poi così bello».
Un senso di drammaticità molto cinematografico – e non a caso il Neorealismo è il suo primo riferimento estetico – appartiene al suo sguardo insieme asciutto e tragico, che trova in un rigoroso bianco e nero la via d’accesso ad una percezione più acuta del reale, spoglia di quelle distrazioni e di quelle manipolazioni di cui i colori sono, loro malgrado, portatori.
Ecco allora che le fotografie di Letizia Battaglia ci appaiono ora più che mai come testimonianze in grado di stagliarsi ben al di là del loro tempo, nell’orizzonte eterno di una meditazione memorabile, quasi metafisica, sulle umane crudeltà.