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di Michele Bartolini

 

Da qualche mese a questa parte un paio di volte a settimana vado in questura. Ci alterniamo io ed Ayoub, uno dei tre operatori della struttura di Brandani. Di solito faccio il martedì e il giovedì, Ayub il lunedì e il mercoledì. Io e Ayoub non ci incontriamo mai. Venerdì mattina Claudia mi chiama dall’ufficio di via Flaminia e mi chiede se sono disponibile. “Ci sei quel giorno lì e quel giorno lì?” mi domanda. “Mi pare di sì, Claudia, adesso controllo” rispondo “Se c’è qualcosa te lo dico, sennò siamo a posto così”. Metto giù il telefono, mi giro verso Jihad che è seduta alla scrivania di fianco a me e le chiedo: “come siamo messi per la settimana prossima, abbiamo visite? c’è qualcosa?” Jihad ha 28 anni, vive in Italia da 10 anni, viene dal Marocco ed è la mia collega e la mia memoria. Non so perché, ma da settembre, da quando ho cambiato struttura e sono finito ai Canneti, sul colle del San Bartolo, ho problemi a ricordare alcune cose. Ho amnesie e buchi di vario tipo. Jihad mi prende in giro, ride. Ogni tanto, quando la dimenticanza è proprio grossa, alza i suoi grandi occhi al cielo e dice qualcosa in arabo, una frase breve, secca, il tono incredulo. Allora rido io, le dico di aver pazienza, le dico che ho bisogno di una TAC, di una badante, di stare a casa, di dormire per una settimana intera.

Intanto è la fine di Marzo, le strutture stanno chiudendo una dietro l’altra, un settore intero sta morendo sfilacciandosi, sfaldandosi, e noi che siamo ancora dentro, nel pieno di questa contrazione lunga, caotica e violenta, siamo tutti molto stanchi, nervosi, sospesi. Operatori e utenti. Aspettiamo una fine annunciata più volte e che però non arriva mai. Io, personalmente, sono in questa situazione, sono messo in questo modo: ho un contratto a tempo determinato non più rinnovabile. “Sei fortunato”, mi dicono a denti stretti alcuni tra i colleghi che invece hanno il tempo indeterminato “almeno tu sai quando finisce”. Infatti lo so. Il 30 aprile ho chiuso. Il 30 aprile è un martedì. Ci penso e quel che penso è che due anni sono volati via così, velocissimi e con la potente intensità del viaggio vero.

Michele in questura mercoledì e giovedì, ha segnato Jihad sull’agenda, con la sua scrittura precisa, in pennarello blu. Sono le dieci e mezza di un venerdì mattina, dalle vetrate delle due porte di ingresso entra gialla e calda, la luce del sole. E’ una bella giornata, guardo fuori e penso che è già arrivata un’altra primavera. Valentina, se ci fosse questo tipo di riconoscimento, sarebbe candidabile come insegnante di italiano più paziente della provincia di Pesaro e Urbino. Sta facendo lezione ad alcuni dei ragazzi – tre ghanesi, un nigeriano e un pakistano – in una scuola abbastanza credibile ricavata in fondo alla grande stanza che una volta, fino a dieci anni fa, era la sala di quello che mi pare essere stato davvero un brutto ristorante.
“Andiamo a cambiare le lenzuola nelle stanze?” mi chiede Lassina, il giovane operatore residenziale che viene dal Mali, che gioca a pallone, che studia per diplomarsi, che mi chiama le petit Barto, che prima o poi andrà a vedere una partita di Champions League ma per quest’anno ormai l’occasione è persa, se ne riparla il prossimo. “Va bene”, dico, “pronti!”. Shamas, Richard e Saydou ci danno una mano. Saliamo ai piani di sopra. I letti dei ragazzi del centro di prima accoglienza dei Canneti sono 26 e 26 è il mio numero ricorrente: targhe, date, scritte, stanze, cartelli, coincidenze, persone, orari. 26. Ci sbatto continuamente contro e non so perché. Probabilmente non significa molto ma ogni volta che vedo un 26 mi sento in movimento dentro ad tracciato, ad un qualche tipo di destino. E’ come avere a che fare con le bandiere rosse e bianche dipinte sulle rocce, lungo i tortuosi sentieri di montagna.

E’ mercoledì mattina della settimana dopo e sono le nove meno dieci. Invece di andare su in struttura vado direttamente ad infilarmi nel parcheggio di San Decenzio che è proprio a ridosso del centro di Pesaro. Il parcheggio di San Decenzio è molto grande, c’è sempre un sacco di posto. Soprattutto, incredibile ma vero, non si tratta di un parcheggio a pagamento. La questura è lì a due passi, dopo il sottopassaggio, dietro il tribunale e poi a sinistra. E’ in via Giordano Bruno. Intanto è Aprile, è un’altra bella giornata di sole, il cielo è azzurro, l’aria è tiepida. Spengo la radio, prendo il telefono, scendo dalla macchina e mi incammino. Oggi ho quattro rinnovi di permesso di soggiorno. Né molti né pochi. Che i rinnovi siano due, tre, cinque, otto ci vuole, comunque sia, il tempo che ci vuole. Non è soltanto una faccenda di quantità. Dipende anche dalle distanze e dipende anche dalle persone. Da dove vieni e da chi sei.

Infatti sono le nove e mezza ed ancora non si è visto nessuno. O meglio, di gente ce n’è un sacco, ma dei miei nemmeno l’ombra. Molto spesso va così. Sono seduto su una delle sedie di plastica posizionate in fondo alla sala principale della questura, davanti a me ci sono i tre sportelli a cui gli immigrati regolari e gli avvocati si rivolgono per ricevere informazioni di vario tipo e per sbrigare una serie di faccende burocratiche di cui non so granché se non che alle volte sono lunghe, alle volte sono complicate, alle volte sono difficilmente traducibili o spiegabili. Alla mia sinistra c’è una grossa porta di metallo. E’ bianca, pesante e si apre solamente dall’interno. In altre parole qualcuno ti deve far entrare, da solo non puoi. Dietro quella porta c’è un ampio corridoio e poi, girando a destra, una stanzetta. E’ più lunga che larga, è spoglia, essenziale. Sul lato lungo c’è una panca su cui sedersi e davanti alla panca, in mezzo al muro, c’è un’apertura che comunica con un altro locale. L’apertura è un quadrato, una finestrella schermata da una sottile lastra di vetro che però non arriva fino in fondo. In fondo c’è una fessura di qualche centimetro e poi, dopo quello spazio vuoto, attraversabile, c’è un pianale di legno scarabocchiato. I richiedenti asilo è in questa stanzetta lunga e stretta che aspettano. Ed è attraverso questo spazio aperto, su questo pianale di legno scarabocchiato che ricevono, se la loro situazione giudiziaria nel frattempo non è arrivata a fondo corsa, il rinnovo del permesso di soggiorno. Firmano un modulo, scrivono il loro numero di telefono di fianco alla voce “recapito”, ritirano una striscia di carta lunga e stretta con la propria foto e il proprio nome impressi sopra, e poi per altri sei mesi sono a posto. Come può essere a posto un equilibrista che cammina sopra un filo teso, sospeso a mezz’aria.

“Michele, i tuoi sono arrivati?” mi chiede Francesca spuntando dalla porta bianca e pesante che si apre solo dall’interno e che in effetti ha spalancato lei. “Ciao Francesca” dico “ancora niente, mi spiace. Adesso chiamo le strutture e sento a che punto sono”. “Va bene” dice Francesca “Vado avanti con gli altri…tu chi sei? Ce l’hai l’appuntamento?” Il nigeriano a cui Francesca si rivolge non è con le cooperative, non è con nessuno. E’ quel che si dice, un fuori progetto. Ad un certo punto le misure di accoglienza finiscono e questa gente si ritrova da sola, ai limiti della clandestinità, con in mano quello che ha imparato, quello che sa fare. Qualcuno è in grado di cavarsela, qualcun altro invece no. Il nigeriano in questione capisce poco l’italiano e lo parla ancora meno. Non sa bene cosa dire e non sa bene come dirlo. Sta bloccando tutta quanta la fila e in effetti, si scopre, l’appuntamento proprio non ce l’ha. “Vedi la lista?” domanda Francesca mostrando al nigeriano un foglio a4 con stampati sopra una colonna di nomi. Una quindicina. I rinnovi previsti per la giornata. “Vedi che tu qui non ci sei? Se tu non ci sei, io oggi non posso farti proprio niente. Devi chiamare il centralino, amico, chiamare, chiamare, chiamare. Devi fissare un appuntamento, capito? No appuntamento, no rinnovo…nooo…non posso oh! Devi prendere un A-P-P-U-N-T-A-M-E-N-T-O!!! Appuntamento! Capisci? Madonna Santa…Michele, spiegaglielo tu sennò qui facciamo notte…Sotto a chi tocca, avanti il prossimo! Tu chi sei? Fammi vedere un documento. Ok, il tuo nome è sulla lista. Entra. Vai! Dritto e poi a destra! Tu? chi sei? Oh, AMICO! Là dietro! Non spingere. Non vi dovete spingere tra voi! Venite qui UNO ALLA VOLTA! CON I DOCUMENTI IN MANO!”.

I miei quattro appuntamenti sono arrivati praticamente tutti insieme verso le 10 e 30. Si tratta di due giovani nigeriani provenienti da Novilara e poi di due camerunensi, un uomo e una donna un po’ più grandi della media consueta. Loro due vengono da Acquaviva. Vengono da lontano. Hanno preso l’autobus la mattina presto, hanno cambiato a Fossombrone e adesso sono qui, in attesa, seduti su una panca, dentro a questa stanza lunga e stretta. La struttura di Acquaviva e quella di Fermignano sono gli ultimi due centri di accoglienza superstiti per quanto riguarda quello che nell’ambiente, noi operatori, chiamiamo “l’entroterra”. Tutti gli altri hanno chiuso i battenti. L’ultimo ad affondare è stato San Geronzio. E’ successo una settimana fa. A Pesaro e dintorni, invece, di centri di accoglienza ne rimangono sei in totale. Scricchiolanti. Quando ho cominciato io, due anni fa, la cooperativa contava 32 strutture. 32 centri d’accoglienza sparsi su e giù per tutta quanta la provincia di Pesaro e Urbino. Erano altri tempi, altre energie, altri entusiasmi, altre progettualità. La voce del mare era
ancora più forte del vento che, da terra, già soffiava in questo modo.

“No soldi, no lavoro, no documenti” dice uno dei due ragazzi nigeriani quando gli chiedo come va. Me lo dice con aria serena, distesa, con un sorriso appena un po’ triste appeso in faccia. E’ il suo modo di dire “bene grazie”. Un modo piuttosto diffuso, a dir la verità. Una risposta stereotipata, automatica e senza peso che però, in questo caso, è puro e drammatico dato di fatto. Sono appoggiato con le spalle al muro, in piedi sul lato lungo della stanzetta. Siamo rimasti solamente noi, lì dentro. Siamo gli ultimi. Due nigeriani, due camerunensi ed un italiano, quasi come nelle barzellette.
I due ragazzi nigeriani sono del genere minoritario “basso e minuto”. Per la stragrande maggioranza quando si ha a che fare con i nigeriani, con gli africani in genere, si ha a che fare con giganti, con pugili, con sollevatori di pesi, con atleti. I due chiacchierano tra di loro nel loro inglese deformato, per larga parte incomprensibile. Ridono di qualcosa che non riesco bene ad afferrare. Poi parlano di lavoro, mi pare.
Di chi tra quelli che conoscono ce l’ha o non ce l’ha. Di chi si è preso una fregatura. Di chi ha avuto i documenti. Di chi è finito in mezzo ad una strada dalla sera alla mattina, col diniego e il ricorso rigettato. Di chi adesso vuole provare ad andar via, magari al Sud, magari a Roma, a Napoli, a Milano. Magari addirittura oltre confine. “E’ difficile Capo” mi dicono “In Italia molto difficile”. Hanno scarpe da ginnastica, jeans, magliette colorate, questi ragazzi. Hanno gli auricolari del telefono appesi al collo. Hanno Facebook, Instagram , Whatsapp. Hanno una squadra di calcio per cui tifare, hanno un fratello, una sorella, una madre, un padre, da qualche parte. Sono giovani, soprattutto. Hanno poco più di 20 anni. Chissà cosa si aspettavano. Chissà cosa speravano di trovare. Ci penso e mi vengono in mente tante cose. Però una risposta tutta intera non ce l’ho.

Dalla mia posizione frontale ed elevata sposto lo sguardo in direzione dell’uomo e della donna camerunensi. Così, a occhio, saranno attorno ai quarant’anni. Sono alti, sono belli. Sono grandi e grossi, tutti e due. Hanno un’aria gentile, seria e posata. Sono seduti sulla stessa e unica panca sopra cui sono seduti anche i due ragazzi nigeriani ma si sono sistemati ad un metro di distanza da loro.
All’estremità opposta. Il centro vuoto che si apre tra i due gruppi è garanzia minima di privacy, è riconoscimento reciproco di necessità, è suddivisione istintuale degli spazi. I due parlano tra loro in francese, lingua che io non conosco. Capisco una parola ogni tanto, una frase ogni tanto, per via della similarità con l’italiano. Dalla lista degli appuntamenti che mi ha mandato Claudia il venerdì mattina della scorsa settimana, so che lui si chiama Paul e che lei si chiama Michelle. Michelle sta spiegando qualcosa a Paul, che annuisce e che ogni tanto aggiunge una considerazione, una chiosa, una domanda. Sono quieti e composti. Discutono a bassa voce. Ogni tanto lui soffia fuori una risata allegra per qualcosa che dice lei. Lei allora sorride e si ferma per qualche secondo, come a godersi lo spettacolo che ha provocato con la combinazione delle sue stesse parole. Dopodiché ricomincia. Puntuale e materna.

“Dove lavori capo?” mi chiede Paul ad un certo punto. Michelle infatti ha lo sguardo fisso sul telefono, adesso. Le dita che si muovono veloci sulla superficie liscia dello schermo “Ai Canneti, qui, poco fuori Pesaro” rispondo “ma sono stato in molti posti. All’inizio facevo le sostituzioni. Mi è capitato anche di arrivare fino ad Acquaviva, in effetti” “Quando?” domanda lui “Mah, sarà stato un paio di anni fa” rispondo io. Paul parla un buonissimo italiano, evidentemente ha messo a frutto i suoi giorni, le sue settimane e i suoi mesi. Evidentemente ha intuito fin da subito il vantaggio della conoscenza della lingua.
Mi dice che Acquaviva è tranquilla ma è lontana, che da lì, con gli autobus, ci vogliono tempo e soldi per arrivare da qualsiasi altra parte. Che il problema sono i documenti che non danno. Che il problema è il lavoro che non c’è. Mi parla del Camerun, anche. Degli scontri recenti, dei disordini, della divisione carica di guai tra popolazione anglofona e francofona. Se ne sa poco, dice, ma vivere lì, in alcune zone, è diventato veramente un gran casino. Pochi scherzi…rischi l’osso del collo punto e basta.

E’ quasi mezzogiorno, ormai, i due ragazzi nigeriani hanno fatto quello che dovevano fare, hanno rinnovato i loro permessi di soggiorno, ci siamo salutati e poi loro se ne sono andati via. Ho chiamato Alessandra, l’operatrice di Novilara. “Tutto a posto”, ho detto “Grazie, Michele” ha detto lei. Adesso è il turno di Paul, ha consegnato il vecchio permesso di soggiorno e le due foto tessere a Francesca. Lo ha fatto attraverso lo spiraglio della finestrella piazzata in mezzo al muro, attraverso il pianale di legno scarabocchiato. Francesca ha raccolto tutto quanto ed è andata in ufficio, lì dietro, a controllare, a compilare, a stampare. Non resta che sedersi di nuovo, non resta che aspettare.
Paul mi guarda fisso per un paio di secondi, in silenzio, come pensando a qualche cosa. Come soppesandomi. Poi sorride e mi chiede se mi ricordo di Roger Millà, di Omam Biyik., di N’Kono. Me li ricordo. “Certo che me li ricordo”. Erano i Mondiali del 90, quelli delle notti magiche, quelli del “sotto il cielo di un’estate italiana”. Il Camerun era arrivata ai quarti di finale e nel girone di qualificazione aveva clamorosamente battuto l’Argentina. Era stata una delle squadre rivelazione del torneo, fregata dall’Inghilterra ai supplementari, su rigore. 3 a 2. I leoni d’Africa, così li chiamavano. Coloratissimi, appassionati, allegri. Come i ragazzini che eravamo, noi, quella volta. Nell’estate del 1990. Io, Paul e di sicuro anche Michelle

Sono fuori. Anche per questa volta con la questura ho finito. Ho salutato Francesca e poi, di seguito, ho salutato anche i due camerunensi. “Ciao ragazzi, è stato un piacere, buona fortuna”. Io, Paul e Michelle ci stringiamo la mano e ci dividiamo per strada, al primo incrocio. Loro vanno verso il centro. Vanno a prendere l’autobus. Se ne tornano ad Acquaviva con sei mesi di permesso di soggiorno in tasca. Io mi dirigo lentamente verso il parcheggio di San. Decenzio, il telefono già in mano. “Pronto Jihad, si ho fatto…ascolta, passo all’ipercoop a prendere un caffè e due pezzi di pizza, poi vengo su. Volete qualcosa? Tutto a posto? Chi? Umade? E capirai se non si metteva di traverso…che rottura…dai, tra un po’ arrivo, glielo dico anche io…si lo so, lo so…per quel che
vale…ci provo…mammamia…madonna mia che palle…”. Salgo in macchina, butto il telefono nel porta oggetti e poi spalanco i finestrini. Mi metto la cintura, accendo la radio e parto. “There must be some kind of way outta here, said the joker to the thief”, così canta Jim Hendrix in “All along the watchtower”. Esco dal parcheggio e mi immetto nel traffico insieme a tutto quanto. Insieme a tutto il resto.

“Mon Amour” penso mentre vado, mentre la pinna rossa dell’ipercoop compare alla mia destra, mentre mi fermo all’incrocio di via Ponchielli, aspettando che il semaforo diventi verde.
“Mon Amour”… Paul è in piedi, allo sportello, con Francesca davanti e con me al suo fianco. Il modulo da riempire è appoggiato sul pianale di legno scarabocchiato. Ha firmato dove deve firmare ma poi alla voce “recapito” ha una specie di vuoto di memoria: insomma non si ricorda il numero di telefono. Allora Michelle si alza dalla panca e si posiziona tra lui e me, in mezzo, con il telefono in mano. Comincia a dettare i numeri, uno alla volta. “Trois-cinq-un”…Paul si china di nuovo sul modulo e li trascrive lentamente. Grande e grosso com’è sembra un alunno, un bambino con il grembiule azzurro.
“Vedi?” dice Francesca “Senza le donne, voi uomini come fate? Non vi sapete nemmeno soffiare il naso, da soli”. Sorridiamo scioccamente, io e Paul, rinunciando, imbarazzati, a replicare qualunque cosa. Mi giro verso Michelle, invece, la guardo per un secondo e poi dal suo viso scuro e bello va a finire che l’occhio mi cade meccanicamente proprio al centro della sua concentrazione, sul display illuminato del telefono che ha in mano. “Mon Amour” è quello che c’è scritto. “Mon Amour” è quello che io leggo. “Deux-neuf-sept-cinq” dice Michelle. Paul scrive, Francesca aspetta, io ci penso su… Poi il semaforo diventa verde e io riparto.


Mi chiamo Michele Bartolini, sono nato nel 1979, e sono un educatore (al momento disoccupato).
Fino a qualche tempo fa ho avuto a che fare con il sistema dell’emergenza migranti, con le esigenze e le persone che lo componevano.
Cintura nera secondo dan di taekwondo, in questo periodo c’è troppo e troppo poco da prendere a pugni e a calci.
Allora, mentre aspetto di ricominciare, guardo dalla finestra , cerco di capire e scrivo.

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