di Walter Colaiacomo
Per anni ho amato esplorare la città di notte, quando mostrava titubante il suo volto generoso e inquieto dopo i tempi di respiri ombrosi e di passi lugubri che avevano provato a strappare l’anima.
Notti ancora resistenti colme di racconti e umanità.
Penetravo, tra le tracce sospese di profumi silenziosi e parole scagliate libere oltre i timori, immergendomi di nuovo nel mare pescoso dell’utopia. Pareva che tutti fossimo tornati ad esprimere, finalmente, gli impulsi vitali che Eros pizzicava suonando note profonde e rivelatrici.
Fu in una di quelle notti uniche che si ricordano per sempre, quando il mondo tutto sembra una gigantesca danza di Matisse, che venni a conoscenza di una strana storia, di quelle che fanno mangiare le emozioni saziandole con pasti succulenti.
Camminando nel tepore di stelle primaverili, in un vicolo del barrio San Telmo notai una porta antica sulla quale, illuminata da una luce discreta, un ferro lavorato e sinuoso mostrava la scritta “Locanda del sogno” e accanto, appeso come un pensiero fugace, un manifesto di un’orchestrina e l’annuncio “Ogni sera musica per l’anima”.
“Che strano” pensai “passo di qui molto spesso e non avevo mai notato questo posto”. Così incuriosito aprii la porta ed entrai. Scesi le scale scricchiolanti chinando come un chierico la testa che sfiorava il soffitto basso a volta, presagendo di unirmi al rito sacro dell’incontro. Infatti stretto il passaggio si apriva in un’atmosfera di tempo largo pulsante di voci adulte, effetto dei riverberi di rughe pronunciate.
Avvicinandomi al bancone notai subito quella che a me parve una stonatura. Un uomo solo se ne stava seduto vicino al piccolo palco, evidentemente sistemato per ospitare i suonatori, rivolto con raro rapimento verso quello spazio assolutamente vuoto. Poi d’improvviso lo vidi lanciarsi in un applauso singhiozzando lacrime.
Stranamente nessuno dei presenti parve minimamente colpito o disturbato.
Provai pena e ammirazione per quell’uomo, pensai “E’ di pochi saper immaginare l’emozione così realmente”.
Ordinai il mio rum mormorando, questa volta, il pensiero appena fatto e l’oste, riempiendo il bicchiere, disse con tono accogliente “Non immagina. Vede e sente”. “Come?” chiesi, guardandomi intorno alla ricerca di un ipotetico compare dell’oste pensando stesse tirando uno scherzo al nuovo avventore della locanda.
Invece iniziò a raccontare.
Dieci anni fa su quel palco morì un musicista favoloso, Ramon. Lui e il suo piano per quarant’anni, dall’apertura della locanda, richiamarono pubblico da tutto il mondo. Non suonò mai al di fuori di quelle tavole inchiodate che vede. Nonostante lo chiamassero dai migliori teatri e che manager famosissimi venissero a proporgli contratti ricchissimi lui non si mosse mai. Diceva “Sarò sempre qui su queste tavole inchiodate da mani callose accanto alla mia gente, solo così avverto il senso di far vivere la mia musica”. Morì accarezzando l’ultimo tasto sorridente.
Un mese dopo la sua scomparsa accadde per la prima volta quello a cui avete appena assistito. Una donna mai vista prima, proprio qui dove siete voi, accompagnava il suo sconforto bevendo mai sazia il suo racconto perduto, quando, voltandosi verso il palco vuoto, chiese proprio a me chi fosse quel musicista sublime che stava suonando. Io la guardai perplesso credendo al risultato di una triste ebbrezza, mi colpì però il trasporto col quale descriveva la musica, che era lo stesso trasporto vissuto dal pubblico quando suonava Ramon. La sera dopo successe la stessa cosa, ma ad un uomo, che aveva pianto consolato da un amico chissà quale dolore.
Fu quest’uomo, vecchio frequentatore della locanda, a dire di vedere Ramon suonare. Raccontò che dopo la prima canzone gli aveva anche parlato chiedendogli “Dove vuoi che vada la mia musica?” e aveva poi ripreso a suonare e alla fine di quel concerto intimo sentì un sollievo calmo come se quella musica avesse nettato i suoi nervi feriti.
Per tutta quella prima settimana, ogni sera alla stessa ora, accadeva che qualcuno afflitto, evidentemente, da profonda sofferenza a un certo punto iniziasse ad ascoltare la musica di Ramon e la sua domanda e che dopo averla ascoltata ritrovasse un senso limpido oscurato prima dalla bruma del dolore. Poi si sparse la voce e da allora, ogni sera, c’è sempre qualcuno che aspetta di sentire la musica miracolosa per alleviare le sorti insopportabili della vita.
Rimasi in silenzio, per un tempo appeso interminabile, a fissare l’oste non trovando il coraggio di domandare. Forse avvertendo il brusio deciso dei miei occhi fu lui stesso a rompere l’incanto e riprese a parlare “Sì è successo anche a me, qualche anno fa, quando la mia amata sparì nell’oscurità rumorosa di passi militari” mordendo la mandibola mandai giù l’ultimo sorso di rum e questa volta domandai con voce tremante “E quando ti ha chiesto ‘Dove vuoi che vada la mia musica’ cosa hai risposto?”.
“Al suo cuore. Al cuore Ramon”.
“Il titolo del breve racconto -aggiunge- vuole essere un umile omaggio ad uno dei miei miti cinematografici: Sergio Leone”.